Quando una goccia può far rinascere il cuore di Palermo

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È la mattina del 6 gennaio e circa duecento persone affollano l’interno delle Tre Navate, uno degli enormi capannoni in cui si articolano i Cantieri Culturali della Zisa, uno straordinario esempio di archeologia industriale, sessantamila metri quadri che a metà  anni ’90 erano diventati a Palermo un punto di riferimento ma soprattutto un tentativo concreto di riemergere dal collasso del 1992 individuando nella cultura uno strumento politico strategico.
L’immagine dell’acqua che si espande sul pavimento delle Tre Navate non descrive soltanto in quali condizioni si trova oggi la maggior parte dei Cantieri (soltanto il 20% dello spazio è stato recuperato e destinato a un uso pubblico; tutto il resto è chiuso da anni e assimilato al paesaggio di macerie normalizzate che è il denominatore comune di Palermo): quell’acqua che si dilata silenziosa racconta in che modo una città  può sparire a se stessa. 
Per rendere palese il portato di questa sparizione, un comitato di cittadini attivo da un anno a Palermo, I Cantieri che Vogliamo, ha promosso Cultura Bene Comune, una tre giorni (dal 6 all’8 gennaio) di forum, laboratori, performance e spettacoli realizzata con il lavoro volontario di settanta diverse associazioni e un centinaio di artisti. 
La percezione di questo pieno (di proposte, conflittualità , ipotesi: soprattutto di studio) ha rivelato le proporzioni del vuoto al quale Palermo ha fatto l’abitudine; non soltanto un vuoto di vita culturale ma soprattutto di vita politica reale, di partecipazione, di diritto all’autoconvocazione e alla riappropriazione. Qualcosa che si è generato lentamente trasformando lo spazio sociale in un deserto.
Nel momento in cui diciamo che Palermo è sparita non stiamo ricorrendo a una facile iperbole: stiamo prendendo atto di un’esperienza malinconicamente verificabile. Nella percezione pubblica, in quella mediatica, Palermo è diventata una città  fatta d’aria, irreperibile sulle mappe. Invece che recuperare terreno e irrobustirsi sul versante civile, Palermo ha affrontato gli ultimi quindici anni impegnata in un esercizio di scomparsa. L’ultima decade, quella della gestione Cammarata, ha condotto a livelli di acquiescenza traumatici. 
La goccia – è il caso di dire – che ha fatto traboccare il vaso è stata, lo scorso 8 novembre, un “invito a manifestare interesse” nei confronti dei Cantieri che l’amministrazione cittadina ha mandato agli imprenditori. In sostanza, dopo avere ignorato la lettera aperta che nei mesi scorsi I Cantieri che Vogliamo le aveva indirizzato sollecitando attenzione sul destino di questo patrimonio, l’amministrazione locale dà  platealmente le spalle all’aggettivo con cui è nominato lo spazio in questione – Cantieri Culturali della Zisa – tagliando fuori dalla discussione le associazioni culturali. Per questi motivi le tre giornate di Cultura Bene Comune – subito evolute in forma di presidio – hanno avuto e potranno avere una funzione fondamentale. Prima di tutto perché dopo anni in cui Palermo si limitava, nella migliore delle ipotesi, a notare l’assenza di una vita culturale, ha cominciato, tramite terapia d’urto, a sentirne la mancanza. In secondo luogo perché queste tre giornate hanno dichiarato la rottura di una subalternità . Non a qualcun altro ma a se stessi, ai propri alibi, alla propria coazione a smarcarsi. Al netto di tutte le autoillusioni, continuando a coniugare in modo adulto fiducia e capacità  critica, forse questa volta sarà  possibile, una goccia dopo l’altra, drenare l’acqua e liberare lo spazio.


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