Tra i ventenni del “profondo Sud” che tradiscono Obama con la destra

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COLUMBIA (South Carolina) – «People got to be free!» Le note della canzone dei Rascals (1968) rimbombano gioiose nell’hangar-birreria-discoteca. Il pubblico accenna a una “ola” talmente quel brano è diventato popolare: è l’inno libertario di Ron Paul, oltre che un titolo ben piazzato nella hit parade di Occupy Wall Street. Eccomi nel profondo Sud e attorno a me lo spettacolo è sorprendente.
Giovanotti con l’orecchino, ragazze vestite come al Village di Manhattan, studenti universitari o giovani informatici identici alla fauna “cool” che incontri nel campus di Berkeley. I pregiudizi di un newyorchese vengono travolti: non vedo attorno a me tracce del Ku Kux Klan, dell’oscurantismo, del razzismo da piantagioni, del grilletto facile. Arriva sul palco Paul – boato della folla – esordisce con il tema preferito: «Viviamo in uno Stato di polizia, ognuno è minacciato, è passata la legge che consente di arrestare un cittadino americano e sbatterlo in carcere senza processo, questa è la fine dell’habeas corpus, la fine della libertà ». Urli di approvazione, il messaggio libertario piace. Attorno a me l’età  media è di vent’anni, la convinzione è quella che ha fatto l’America due secoli fa: dallo Stato non si aspetta nulla di buono. Sono i fratelli e sorelle minori della “generazione Obama” che quattro anni fa si schierarono compatti col primo candidato afroamericano della storia. La South Carolina non è rappresentativa di tutto il paese, però il segnale di allarme per Obama c’è: nella generazione che vota per la prima volta ci sono due ali estreme, gli astensionisti di sinistra di Occupy e questi ragazzi che impazziscono per il repubblicano anarchico-liberista Paul. Fuori dalla mega-birreria, sulla Lincoln Street incontro un’altra figura emblematica, in questo Stato dove su 2,7 milioni di elettori registrati il 60% si dichiarano cristiani evangelici (le congregazioni fondamentaliste del protestantesimo). William Penn è un bell’uomo di 35 anni col fisico da U.S. marine, occhi azzurri, capelli biondi tagliati cortissimi, e due bambini piccoli a tracolla. Più altri due che gli stanno incollati ai jeans. Più altri tre che, sul marciapiede di fronte, aiutano la mamma a distribuire volantini. «I veri cristiani – mi dice William – non possono essere guerrafondai. Gesù disse: ama il tuo nemico, porgi l’altra guancia, noi ci sentiamo autorizzati a uccidere o torturare il nemico se è musulmano. L’America combatte guerre anti-costituzionali. Voto Paul perché da presidente chiuderà  tutte le basi militari americane nel mondo». 
Sulla guerra come sui poteri di polizia, questa destra non sembra fare distinzione tra George Bush e Barack Obama, gli anni di Bush-Cheney e dei neocon sono una nebbia indistinta di malefatte non meno orribili di quelle attribuite al successore. Le incoerenze abbondano anche fra i seguaci di Newt Gingrich, catapultato nel ruolo di favorito dopo avere insolentito un giornalista di Cnn che osava interrogarlo sulle sue relazioni anti-coniugali. «Non sto eleggendo il mio pastore né una guida spirituale per i miei figli», è la risposta che sento dai suoi sostenitori. Me lo conferma il presidente del partito repubblicano, Reince Priebus: «Non ho ricevuto una sola email sulle accuse della ex moglie di Gingrich». Invece piace tanto la grinta con cui Gingrich ha aggredito «i media élitari, tutti di sinistra». La base repubblicana è compatta su un punto: a novembre l’elezione presidenziale sarà  un referendum pro o contro Obama.
Religione a parte, anche in questo Stato dove la disoccupazione è al 10%, l’economia domina. Me lo conferma un altro giovane elettore, Adam Phillips, che mi serve un hamburger alla Ruth Steak House. Il ristorante è una fotografia di questo angolo di Sud dove i neri sono il 22%: ai tavoli vedo famiglie afroamericane del ceto medio-alto, e famiglie bianche, ma ciascuna rigorosamente per sé, senza mescolanze né matrimoni misti, in una convivenza ancora implicitamente segregata. A 21 anni, Adam fa il cameriere part-time per pagarsi una parte della retta universitaria, sta per laurearsi in Scienze politiche. «Ho deciso di votare per, per quello…». I nomi dei candidati glieli devo ricordare io. «Ah sì, Romney, quello che ne capisce di economia. Forse ci tirerà  fuori lui da questa crisi. Tanto vale provarci». Le accuse a Romney sui fondi alle isole Caimane gli hanno fatto perdere consensi. Un gruppo di chiese ha comprato un’intera pagina di pubblicità  sul quotidiano locale, The State, per accusare Romney di essere «Pro-tutto, purché ci sia Pro-fitto». Proprio qui in South Carolina il fondo Bain Capital sotto la direzione di Romney chiuse l’acciaieria Georgetown Steel, licenziò 1.750 dipendenti, e se ne andò con un profitto di 58 milioni. Queste storie lo hanno danneggiato, ma la corsa alla nomination è ancora lunga, e i soldi non sono mai stati un handicap in questo paese. «Capitalismo» è una parola che qui si usa con orgoglio. Il libero mercato per i repubblicani è una cosa meravigliosa: quella che rende l’America tanto più dinamica della vecchia Europa verso cui Obama vorrebbe trascinarli.


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