Youssou N’Dour for President

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Con audacia e sicumera in parti uguali, il cantante senegalese Youssou N’Dour ha ufficializzato l’altro ieri sera dagli schermi della sua televisione privata l’intenzione di candidarsi alle elezioni presidenziali del prossimo 26 febbraio. È la naturale evoluzione dell’annuncio, fatto lo scorso novembre, di voler congelare ogni attività  artistica per impegnarsi a tempo pieno in politica, ma resta comunque una scelta dirompente. Perché il suo è un nome pesantissimo, destinato a scompaginare gli equilibri e le dinamiche che hanno generato fin qui una ventina di pretendenti alla poltrona occupata negli ultimi dodici anni dall’anziano e sempre più impresentabile Abdoulaye Wade. È diventato grande l’ex bambino prodigio della moderna musica mbalax, una frustata elettrica venuta su dai sobborghi di Dakar sul finire degli anni ’70, ma non ha mai perso il vizio di stupire. Sollecitato a compiere il grande passo dalla richiesta esplicita di «tante donne e tanti uomini che con ottimismo sognano un nuovo Senegal – ha detto tra l’altro – Ho ascoltato la loro richiesta, ho capito, ho risposto positivamente». Ora dovrà  dire di sì anche la Corte costituzionale, chiamata a ratificare le varie candidature entro fine gennaio. Nel frattempo lui ha già  tracciato un programma tosto e contundente, che ha come priorità  quella di garantire una razione giornaliera di tchep – il tradizionale riso con tuberi, verdura e pesce – anche a chi non sempre può permetterselo. L’autosufficienza alimentare prima di tutto, quindi, e poi massima attenzione all’educazione e alla sanità , a settori chiave come l’agricoltura, la pesca, il turismo, l’energia solare, più un pensierino al trasporto pubblico, visto lo sciopero che in questi giorni paralizza la capitale e uno agli emigranti, vista la portata decisiva delle loro rimesse sull’economia nazionale. Rassicurati gli investitori stranieri e promesso un potenziamento della polizia per aumentare la sicurezza, Youssou ha tratteggiato un futuro di pace e prosperità , pieno naturalmente di arte, cultura, sport. «Non ho fatto l’università  – ha ammesso a un certo punto – ma fare il presidente è una funzione, non un mestiere. Ho imparato molto alla scuola del mondo, perché viaggiare istruisce tanto quanto i libri. E a più riprese ho dato prova di efficienza, rigore, competenza». Insomma, siamo di fronte all’ennesimo artista che si prende sulle spalle una simile responsabilità . Così va il mondo, penseranno in molti, e se non è il migliore dei mondi possibili poco ci manca. Il problema è che troppo spesso dopo un sogno di questa portata ci si risveglia sudati, con la bocca impastata e la luna storta, perché evidentemente il sogno è rimasto tale. Bisognerebbe chiederlo fra qualche tempo agli haitiani che nell’aprile scorso hanno eletto presidente il divo della canzone compas Michel Martelly, meglio noto come Sweet Micky. Musicalmente non c’è storia, ma le chance di portare a casa il risultato sono più o meno quelle. Eppure anche George Weah, l’ex calciatore che si è candidato alle presidenziali in Liberia, sentiva di avere la vittoria in tasca, solo che al ballottaggio si è dovuto arrendere a Ellen Johnson-Sirleaf. In comune con Youssou c’è il nobile intento di impegnarsi per il proprio paese dopo aver macinato fama e denaro in giro per il mondo. Youssou N’Dour si dichiarava tifoso del Milan proprio ai tempi in cui Weah giocava al centro dell’attacco rossonero. Ma a questo punto non suonerebbe troppo spericolato un parallelo con il padre-padrone di quella squadra. Non certo per il passato di crooner da crociera di Berlusconi, quanto per il frequente e analogo ricorso alla mitologia del grande uomo che si è fatto da sé, col sudore della fronte e tanta caparbia. Lo spirito imprenditorial-patriottico è più o meno quello. «Voglio regalare al Senegal i segreti della mia riuscita sul piano professionale e mettere a disposizione il mio portafoglio di relazioni internazionali», ha detto il neo-candidato di fronte alla telecamera che lo inquadrava a mezzo busto, boubou minimalista dorato indosso, insolitamente impacciato nel seguire il testo che scorreva sul gobbo. Oltretutto oggi il cantante è a capo di un piccolo ma combattivo impero editoriale, Futurs-Média, articolato in un giornale, una radio e un canale televisivo che ha tribolato parecchio per farsi assegnare le frequenze ed è sempre in lotta con il tacito monopolio di cui gode la tv di stato. Negli ultimi anni ha investito i suoi ragguardevoli guadagni internazionali in studi di registrazioni e nightclub, e dopo una campagna di microcredito lanciata con la complicità  di Benetton ora aspira a controllare una vera banca. «Non ho la doppia nazionalità  – è stato un altro passaggio chiave del suo discorso di investitura – e ho investito qui tutti i miei guadagni». Non gli manca certo il carisma, a Youssou, mentre la voce d’angelo che ha incantato mezzo mondo da tempo non perdeva occasione di levarsi in difesa dei poveri e dei giovani, in un paese che guarda caso povero e giovane lo è in massima parte. Con un sogno di questa portata da ieri l’86enne Wade dorme sonni decisamente agitati. Nel 2000 aveva varato la cosiddetta Alternanza, dopo i quarant’anni di potere socialista inaugurati da un poeta come Senghor all’indomani dell’indipendenza. E ora Youssou si presenta come «l’alternativa all’Alternanza». Giorni contati quindi per l’uomo che aveva introdotto il limite costituzionale di due mandati presidenziali precisando però che valeva per tutti tranne lui. Lui che aveva già  designato come successore il figlio Karim, garante ideale dei rapporti privilegiati con l’Arabia saudita, in un intreccio pernicioso di politica, cemento, corruzione, di liberismo sfrenato e islam ultramiliardario. Lo scorso giugno Wade aveva anche provato a dimezzare la soglia percentuale che gli avrebbe garantito la vittoria al primo turno, ma le piazze si erano subito riempite di rabbia popolare, a creare quasi l’illusione di una propaggine sub-sahariana delle primavere arabe in corso. Il neo-candidato non avrà  alcuna difficoltà  a intercettare un malcontento così radicato. Ma se davvero verrà  eletto dovrà  dimostrare che tra il guidare un’orchestra e guidare un paese non c’è poi tutta questa differenza.


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