Cari ministri parliamo di soldi

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Questo deficit culturale non giustifica, però, l’oggettiva reticenza con la quale ministri e viceministri del governo Monti – con l’eccezione del sottosegretario Catricalà  – stanno rendendo pubblici guadagni e patrimoni, come prevede la legge. Non solo non la giustifica, ma ne esce rafforzato, perché la reticenza alimenta il pregiudizio che la ricchezza sia qualcosa da maneggiare con cautela o da nascondere, come per decenni ha fatto la maggioranza dei ricchi e degli arricchiti italiani. E poiché, entro la fine di marzo, la legge obbliga i membri del governo a comunicare al Senato la loro situazione patrimoniale, tanto varrebbe bruciare i tempi. Evitando la sgradevole impressione che nel governo più “liberale” degli ultimi decenni prevalga, rispetto al denaro, un imbarazzo di stampo cattolico. 
La legge sulla trasparenza dei redditi valeva ovviamente anche per i precedenti governi, ma essendo formati, per la quasi totalità , da parlamentari in carica e da professionisti della politica, la curiosità  era assai più ridotta. Nel caso di un governo extra-politico, formato in larga parte da professionisti, accademici, manager privati e di Stato, è ovvio che l’opinione pubblica abbia tutto l’interesse di conoscere il profilo economico dei governanti. Per sapere non solo e non tanto quanto guadagnano, ma soprattutto da dove traggono di che vivere. Perché in un Paese ferito quasi a morte da un gigantesco conflitto di interessi, ancora fresco e in parte ancora gravante sul futuro, il tema non può non essere di primissima importanza, come ben sa il ministro Corrado Passera che da quelle forche caudine è dovuto già  passare, separandosi da pacchetti azionari che mal si conciliavano con il suo incarico. 
I ministri in carica, dichiarando, come hanno fatto, solo quanto guadagnano adesso (frutto dei loro attuali incarichi), sanno bene di non dichiarare nulla di davvero rilevante. È quanto guadagnavano prima di salire alla politica, e in virtù di quali attività  professionali o finanziarie, a costituire materia di pubblico interesse. 
Si capisce che il rischio, nel caso di patrimoni cospicui, è di esporsi ad attacchi personali e malumori internautici non sempre ben diretti, né bene espressi: è quel generico e tutto sommato irrilevante mugugno che appioppa comunque a “chi sta in alto”, a prescindere dalle storie personali, una fama di abuso e di scrocco. Ma a fronte di questo rischio, che in fin dei conti rientra nel prezzo della popolarità , un governo che confida di modernizzare il Paese, e di scrostare vecchie ruggini, ha tutto l’interesse, e forse il dovere, di dare il buon esempio parlando di denaro, di redditi, di situazioni patrimoniali in maniera trasparente e – come dire – finalmente laica. 
Può anche darsi che il Paese sia pronto, almeno in buona parte, a leggere altrettanto laicamente quelle cifre. Può darsi anche che, a fronte della probabile notizia di un diffuso benessere degli attuali governanti, il Paese sia così maturo da trarne non la conferma di un pregiudizio sciocco e generico, ma un giudizio politico più maturo, e riflessivo. Per esempio stabilendo (se si è più “di destra”) che è bene avere una classe dirigente abbiente, perché il benessere riflette il merito e le capacità , e dunque essere governati da benestanti significa essere governati da capaci. Oppure (se si è più “di sinistra”) che un governo di alto censo è, per sua natura, troppo legato agli interessi forti, e poco rappresentativo di una società  dove la gran parte dei redditi sono bassi e deboli. E questa è politica, legittima politica. Non pregiudizio né maldicenza.


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