l’Insofferenza verso lo Stato che Tassa e spende Troppo

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Ovunque, nel mondo industrializzato avanzato — anche negli Stati Uniti dove, secondo la nostra retorica fiscale, tutti pagano volentieri le tasse — monta l’insofferenza per lo Stato spendaccione e tassatore. Negli Usa, poi, i contribuenti ne recuperano il fondamento etico-politico nella storia e nelle istituzioni stesse del Paese; che hanno fatto una sorta di «inversione a u», dalle origini ai giorni d’oggi, per tornare al punto di prima. Il punto critico sta nella contrapposizione fra la Costituzione federale e i singoli Stati, espressione delle antiche colonie inglesi dalla cui rivoluzione (antifiscale) è nata la federazione e che, nell’Ottocento, giunsero (anche per ragioni fiscali) a provocare la guerra civile e minacciare la secessione. 
Il primo a rilevare tale antinomia fu John C. Calhoun con la sua Disquisition on Government (1850), oggi pubblicata da Liberilibri (Disquisizioni sul governo, pagg. 103, 16) con una bella introduzione di Luigi Marco Bassani. Calhoun era un uomo del Sud del quale difendeva persino la pratica della schiavitù per tutelarne gli interessi agricoli rispetto a quelli industriali del Nord.
«Il dibattito — scrive Bassani — era ormai su Stato e federazione: fra una posizione rigorosamente organicista, che considerava la Costituzione opera dell’intero popolo americano, e una coerentemente pattizia, che la riteneva frutto dell’accordo fra i popoli dei vari Stati». Calhoun sosteneva che non vi era alcun legame diretto fra i cittadini e il governo federale. L’Unione era di Stati sovrani. Inoltre, non esisteva una cittadinanza americana generale, ma si era cittadini di un singolo Stato e si obbediva al diritto vigente in esso, comprese le norme federali… Insomma, gli Stati avevano dato vita al nuovo Ordinamento «come patto tra loro e non come Costituzione su di loro». 
Alle radici della battaglia contro l’eccesso di fiscalità  federale c’è ancora oggi il diritto di resistenza a ogni tassazione illegittima sulla base del principio di «autoconservazione» degli Individui incarnato negli Stati di appartenenza. Naturalmente, nessuno mette più in discussione la federazione; la Costituzione sarà  pure, storicamente, un patto ma, dal momento che ogni Stato le ha delegato una parte della sua sovranità , essa ha assunto una natura politica che ne perpetua l’unitarietà  politica. Per dirla con le parole di Calhoun, «solo il potere può opporsi al potere e tendenza dopo tendenza. Quelli che esercitano potere e quelli soggetti al suo esercizio — i governanti e i governati — sono in antagonistica relazione gli uni con gli altri»; parole che ritorneranno nello Spirito delle leggi di Montesquieu. 
L’americano del Sud, a differenza dell’aristocratico francese, non pensava all’equilibrio fra poteri istituzionali (legislativo, esecutivo, giudiziario), bensì fra gli interessi degli Stati federati, in costante dialettica fra loro e con il potere centrale.
I congressisti sono eletti a livello locale e ne rappresentano gli interessi al Congresso. Gli interessi si de-ideologizzano localmente e si istituzionalizzano centralmente. Il sistema giudiziario di common law — che si affida alla tradizione dei casi precedenti, rispetto all’ondivaga legislazione parlamentare, foriera di arbitrio politico da parte delle mutevoli maggioranze, e di «incertezza del diritto» — viene, a sua volta, in soccorso delle libertà  e dei diritti soggettivi del cittadino (anche) contro il potere costituito. 
Se ne era fatto interprete, da noi, un grande liberale, Bruno Leoni, in Freedom and the Law, 1961 (La libertà  e la legge, liberilibri, 1994; pagg. 220, 28). «La crisi dei sistemi democratico-liberali — scrive Raimondo Cubeddu nell’introduzione — non può essere semplicisticamente risolta sottoponendoli ad opportune cure di “ingegneria costituzionale”. Ma la parte più attuale della sua (di Leoni, n.d.r.) riflessione concerne il ruolo stesso della politica se è bene che i politici non facciano le leggi e che non dirigano l’economia». Non era un tentativo di re-instaurare il liberalismo del laissez faire, ma la constatazione che «tra tale liberalismo ed il nuovo c’è di mezzo la rivoluzione marginalista, quella “teoria dei valori soggettivi” che, superando i paradossi della “teoria del valore-lavoro”, e determinando uno spostamento d’attenzione dal produttore al consumatore, apre nuove prospettive al liberalismo ponendo, parimenti, il problema delle distinzione dalla tradizione democratica». 
Nel solco del pragmatismo anglosassone, ma anche orientale, il liberale italiano ricordava la replica di un vecchio pedagogo confuciano al suo discepolo — un giovanissimo imperatore cinese cui aveva chiesto il nome di alcuni animali incontrati durante una passeggiata in campagna — che aveva risposto «pecore». Rispettosamente, il pedagogo aveva detto: «Il figlio del cielo ha perfettamente ragione. Devo solo aggiungere che pecore di questo tipo vengono comunemente chiamati maiali». Forse, il nostro futuro di uomini liberi dipenderà  (anche) dalla definizione che la Politica darà  della funzione della fiscalità .


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