Monti: l’articolo 18 scoraggia gli investimenti

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ROMA — Sino ad ora era stato argomento da maneggiare con cura, il massimo della critica era una frase scontata, «non è un tabù», difficilmente attaccabile dai sindacati, o da quei settori del Pd che pure sostengono il governo.
Da ieri invece l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori è molto più che un argomento plausibile di discussione e confronto con le parti sociali: è ufficialmente, per il presidente del Consiglio, un ostacolo allo sviluppo, agli investimenti stranieri e italiani, dunque alla creazione di posti di lavoro. 
Per la prima volta Monti ne parla in modo aperto, in un’intervista sul sito web del quotidiano La Repubblica, con l’auspicio che l’argomento verrà  affrontato senza tare ideologiche: nel passato era diventato «uno scontro tra Orazi e Curiazi: il nostro scopo è passare dai miti alla realtà  pragmatica e vedere come contemperare esigenze della garanzia dei diritti con forme che non scoraggino le imprese ad assumere». 
Sin qui forse nulla di dirompente, ma subito dopo il presidente del Consiglio dice quello che pensa, e che ha scritto per anni da professore, in questo modo: «Per come viene applicato l’articolo 18 sconsiglia investimenti di capitali stranieri e anche italiani» nel nostro Paese. Non è una bocciatura secca, ma poco ci manca: l’accenno alla giurisdizione viene completato («possono esserci spazi per chiarimenti a chi deve amministrare la legge»), ma è difficile immaginare interventi solo sulle modalità  di applicazione della norma.
L’articolo 18 come fattore di sottosviluppo, di bassa crescita, riprende considerazioni analoghe della Bce, la banca centrale europea, che ha suggerito al governo precedente di intervenire sul tema. Restano comunque spazi di cautela, nelle parole del premier, perché «non so dire adesso se entro la fine marzo, che è la scadenza che ci siamo dati, sia essenziale o no la modifica dell’articolo 18, perché la riforma è un mosaico che contiene tante tessere, ma trovo che ogni tessera debba essere considerata per vedere cosa può venir fuori».
Le parole di Monti trovano immediatamente una reazione in sede sindacale. «Parlare di troppe tutele per chi è “blindato nella sua cittadella” è non solo sbagliato, e non vero, ma anche un po’ offensivo verso quei lavoratori», replica il segretario confederale della Cgil, Fulvio Fammoni, riferendosi al presunto gap di garanzie, anch’esso denunciato dal premier, fra chi ha un lavoro e chi è precario o disoccupato (la metafora di chi è dentro «una cittadella», fatta di molte garanzie, e chi è fuori).
Quella che appare una svolta, almeno comunicativa, viene completata spiegando meglio le dichiarazioni sul posto fisso: era «monotono» due giorni fa, ma «sono dispiaciuto se con quella frase ho colpito la sensibilità  di qualcuno, se si dicono frasi sbagliate è possibile chiarire».
Spiegare meglio significa dunque aggiungere che «i giovani devono abituarsi all’idea che non avranno un posto fisso tutta la vita», mentre «gli italiani in genere hanno troppa diffidenza verso la mobilità ». Al contrario di quanto «capitava alla mia generazione o a quelle precedenti, i giovani non avranno un posto stabile presso un unico datore di lavoro o con la stessa sede per tutta la vita o quasi. Dovranno abituarsi a studiare all’estero e a cambiare spesso luogo e tipo di lavoro e anche Paese».
Nel corso dell’intervista, la prima sul web dopo 7 apparizioni in studi tv, Monti dice che gli Stati Uniti non sono un modello da imitare, mentre la Danimarca («mitica») sicuramente sì, almeno sul mercato del lavoro. «Siete senza cuore», accusa una delle domande che il web veicola: «Ma se l’Italia è ridotta un po’ male è perché i governi per decenni hanno avuto il cuore troppo buono, diffondendo buonismo sociale» e creando debito.
Poche altre notazioni: Monti sarebbe felice se le banche italiane «comprassero più Bot»; nessuna decisione ancora sulle Olimpiadi, arriverà  «nei tempi stabiliti»; l’Ici sui beni della Chiesa: un «punto importante, che stiamo approfondendo e siamo piuttosto avanti». Temi più politici: la maggioranza che lo sostiene «è ampia ma potenzialmente sempre evanescente»; lo spread, che Berlusconi fece cadere, «fu usato», proprio contro il Cavaliere, «come arma contundente».


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