Bersani sotto assedio

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Un collante decisamente debole, per un partito già  sull’orlo dell’esplosione. Dopo lo schiaffo di Monti, è il momento più critico per i democratici. Nel day after, è una girandola d’incontri, in vista della direzione di lunedì che rischia di trasformarsi in uno showdown nel quale il segretario potrebbe finire alle corde.
Le parole pronunciate martedì sera, a botta calda, da Enrico Letta – «il nostro sì non è in discussione» – e quelle successive di Beppe Fioroni, dello stesso tenore, hanno già  provocato un mezzo terremoto. Al punto che pure Massimo D’Alema si è dovuto spendere per bacchettare i due pubblicamente: «Invito i dirigenti del Pd a una maggiore cautela nel rilasciare dichiarazioni». E alla fine, sollecitato in privato anche dal segretario, Letta corregge il tiro: «La frase che ho detto è ovvia, nel senso che questo governo non esiste se non c’è il voto del Pd, come delle altre forze che lo sostengono. Non ho dubbi che il Pd uscirà  unito».
Ma sul merito della riforma, la spaccatura è già  da tempo lampante. Eppure Bersani procede come se tutti lo seguissero: «Io non penso che Monti possa dire al Pd prendere o lasciare. Non mi aspetto che lo faccia, è chiaro che noi votiamo quando siamo convinti, bisogna ragionare con noi», dice a Porta a Porta. Rischi per il governo? «Non credo perché i prossimi giorni chiariranno meglio la situazione. Noi conosciamo questi temi, altri li frequentano meno, ma più passano i giorni e più si vede cosa vogliono dire nella coscienza collettiva». Il testo sull’articolo 18 è «confuso e pericoloso», dice anche D’Alema. Le modifiche, si ripete, devono assestarsi sul modello tedesco.
Se il decreto sembra per ora scongiurato (per Bersani «non esiste in natura») una legge delega consentirebbe se non altro ai democratici di affrontare la discussione parlamentare sperando di scavallare le amministrative – un test insostenibile dopo aver celebrato il funerale dell’articolo 18 – se non altro prolungando l’agonia dello stesso Pd. Ma se per il partitone del Nazareno sarà  il colpo di grazia, «io non morirò dando il via libera alla monetizzazione del lavoro», sfoga tutta la sua rabbia Bersani nel bel mezzo del Transatlantico di Montecitorio.
La posta in gioco è dunque chiara. E almeno sul percorso parlamentare, i democratici spererebbero nella sponda del Quirinale, chiamato direttamente in causa da Franceschini per il no più volte pronunciato da Giorgio Napolitano all’eccessivo ricorso alla decretazione d’urgenza. Il capo dello stato ha rispedito la patata bollente al governo. Il rischio di una precipitazione degli eventi in tempi brevi è comunque concreto. Perché sulle modifiche all’articolo 18 non arrivano segnali incoraggianti, anzi. Ormai dunque al Nazareno non si nasconde più il sospetto, rimasto finora sottotraccia, che l’operazione articolo 18 avesse un preciso scopo: la dissoluzione del Pd a favore di un progetto neo-centrista, spianando tutto ciò che sta a sinistra. Per questo Monti avrebbe lavorato non per, ma contro un accordo. Dal partito cominciano a partire messaggi diretti: «Questo governo può andare avanti se rispetta la dignità  di tutte le forze che lo sostengono», avverte Rosy Bindi. E il responsabile lavoro Stefano Fassina: «Sarebbe un grave errore istituzionale e politico forzare ulteriormente il senso di responsabilità  del Pd».
Ma si fanno già  i conti: il parlamento dei «nominati» è nato quando alla guida dei democratici c’era Walter Veltroni, l’ex segretario che ha indicato in Pietro Ichino «l’uomo più di sinistra che conosco». E Pietro Ichino ieri ha ricambiato sostenendo che «nella riforma del governo Monti c’è molto materiale programmatico del Pd» e in ogni caso «vivere questo progetto di riforma dell’articolo 18 come una medicina amara e indigesta da ingerire con il naso tappato a me sembra molto fuori luogo». Almeno un quarto dei deputati, una cinquantina, sarebbero pronti a votare comunque quel che chiede il governo. Il provvedimento alla fine passerebbe, e calerebbe il sipario sul Partito democratico.


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