CINQUE DOMANDE PRIMA DI FARE LA GUERRA A IRAN E SIRIA

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E se questo vale per un giornalista che dispensa consigli non richiesti, infinitamente di più vale per chi si trova in posizione di poter realmente dare avvio a un conflitto. Eccoci qui ancora impelagati nel ritiro dall’Afghanistan e già  pungolati a intraprendere nuove imprese militari contro i regimi di Siria e Iran. Dato che fare domande è il mio mestiere, ne ho formulate cinque che il presidente Obama dovrebbe porsi, e noi a nostra volta, come suoi datori di lavoro, per decidere se entrare in guerra sia giustificato e se ne valga la pena. Seguono due mie osservazioni applicabili ai conflitti che si profilano.
1. Fino a che punto è la guerra degli Usa?
Che rientrasse nell’interesse nazionale americano dare la caccia ai fanatici omicidi dietro agli attacchi dell’11 settembre e attaccare il regime afgano che li ospitava, non si discute. Indipendentemente dall’opinione che ciascuno può avere su modalità  e tempistica della guerra, l’intervento in quel caso si configurava come legittima difesa, per usare il linguaggio della legge. Spesso l’interesse americano non è così ben definito. A volte ci sentiamo in dovere di difendere un alleato (e certi alleati più degli altri). In passato abbiamo notoriamente combattuto per i nostri interessi economici. Interveniamo poi in nome dei valori americani, un concetto molto elastico che può significare tutto, dall’impedire un genocidio fino a promuovere la libertà  secondo la dottrina espansionistica di George W. Bush. 
Nel momento in cui il senatore John McCain chiede l’intervento delle forze aeree americane per aiutare i ribelli a rovesciare il governo di Bashar Assad in Siria, applica la logica dell'”agenda della libertà ” di Bush: mettendo fine alle sofferenze di un popolo e aiutandolo a liberarsi della tirannia guadagniamo punti nei confronti dei vincitori aumentando le possibilità  che la Siria sia in futuro meno ostile ai nostri interessi. 
2. A che prezzo?
Se si usa come unico criterio di giudizio l’interesse nazionale, c’è poca differenza tra la Libia, in cui abbiamo aiutato un gruppo di ribelli alle prime armi a rovesciare un regime brutale e oppressivo, e la Siria, in cui finora abbiamo deciso di non aiutare un gruppo di ribelli alle prime armi a rovesciare un regime ancor più brutale ed oppressivo. La differenza fondamentale è che la Siria è un osso più duro. La Libia poteva contare su una debole difesa aerea, concentrata lungo le coste, facile bersaglio dei bombardieri occidentali. Le difese siriane sono più pericolose, più corpose e estese ai centri urbani interni. «Dovremmo crearci un corridoio bombardando a tappeto e rischiare che i piloti americani vengano abbattuti, catturati dal regime e usati come scudi umani», spiega John Nagl, esperto militare di controinsurrezione, docente all’Accademia navale Usa. «Provocheremmo molte più vittime», aggiunge. 
L’analisi costi-benefici può sembrare un esercizio cinico ma è inscindibile dalla questione dell’interesse nazionale. Dopo più di dieci anni di guerra che ha comportato un’emorragia di almeno tremila miliardi dalle casse dello Stato, ucciso o reso disabili migliaia di soldati e creato la spirale che porta ad atrocità  e profanazioni, qualsiasi ulteriore impegno deve essere valutato alla luce dei costi che comporta per la nostra sicurezza economica e la nostra capacità  di affrontare una eventuale prossima, reale minaccia. Karl Eikenberry, che ha servito in Afghanistan come comandante militare e come ambasciatore, la pone in questi termini: «Se in futuro non equilibreremo meglio fini, modi e mezzi, gli storici un giorno potrebbero dire che dopo le guerre in Iraq e in Afghanistan gli Stati Uniti furono costretti a ridimensionarsi a livello globale come i britannici alla fine degli anni ‘60 quando annunciarono la loro strategia “ad est di Suez”».
3. Quale alternativa?
Chi prende le decisioni al vertice dovrebbe – come ha fatto per lo più Obama – valutare con la massima attenzione le alternative alla guerra. Il presidente ha scongiurato un attacco aereo israeliano agli impianti nucleari iraniani mobilitandosi perché fossero applicate dure sanzioni ai danni delle industrie petrolifere e delle banche iraniane, e arrivando a un passo dal dichiarare che se l’Iran proseguirà  nella corsa al nucleare gli Usa lo bombarderanno. Pare che le sanzioni sortiscano un qualche effetto. E se falliranno potremmo convivere con un Iran dotato di armi nucleari? Potremmo contare sul principio di deterrenza nel caso dell’Iran? Vale la pena di discuterne seriamente, ma se è vero che il concetto di deterrenza guadagna consensi tra gli esperti, Obama non può neppure accostarvisi, a meno di minare tutte le iniziative per bloccare il programma iraniano oltre che, non a caso, porre a rischio il suo secondo mandato. 
4. Con chi? 
In queste guerre opzionali è utile essere in buona compagnia – per accrescere la nostra autorità  morale, estendere l’intelligence, dividere le spese, spalmare il rischio e per correggere la rotta. In Libia c’erano altre 17 nazioni a imporre il blocco e la no-fly zone, tra cui arabi e turchi. “Condurre da dietro” sarà  anche risibile come espressione, ma è stata una strategia funzionale. Nessuno per ora si offre volontario per seguirci in Siria. 
5. E poi? 
È l’interrogativo che Robert Gates ha reso un mantra al Dipartimento della Difesa: che succede dopo? Quali saranno gli effetti di secondo e terzo grado? Come conseguenza involontaria (ma prevedibile) l’invasione dell’Iraq ci ha portato a distrarre attenzione ed energie dall’impresa assai più importante in Afghanistan. Ora una possibile conseguenza della fretta nel lasciare l’Afghanistan – per quanto forte possa essere la tentazione, dato il crollo della fiducia tra i due Paesi – è la crescente possibilità  che la crisi afgana si trasmetta al Pakistan. In Pakistan ci sono sia armi nucleari che fanatici in abbondanza pronti ad usarle. Anche per la Siria bisogna riflettere bene sul caos che potrebbe scatenarsi. Dice Nagl: «Il problema non è rovesciare Assad, è il dopo. Alzi la mano chi è favorevole all’occupazione di un altro Paese islamico». 
La prima osservazione che avanzo riguarda l’opinione pubblica. Una democrazia non può ignorarla. Le guerre non si dichiarano alle urne. L’opinione pubblica può aver torto. Era con Bush, entusiasta, ai tempi dell’invasione dell’Iraq. Ma l’opinione pubblica pesa quando si tratta di decidere. Gli Usa hanno usato la forza per fermare il genocidio in Bosnia, ma non in Rwanda e nel Darfur. La differenza è stata che gli americani (e i media Usa) erano concentrati sulla carneficina in Europa, non sulle atrocità  africane. 
La mia seconda osservazione è che porre le domande giuste ha senso solo se si è pronti ad accettare risposte scomode. A volte i nostri leader partono dalle risposte e procedono a ritroso, adattando la realtà  alla politica, come ha detto il capo dell’intelligence militare britannica riferendosi all’invasione dell’Iraq e alle false fonti sulle armi di distruzione di massa. Un esempio è l’insistenza di Rick Santorum, il falco dei candidati repubblicani alle primarie, sul fatto che il programma nucleare iraniano non è soggetto a ispezioni internazionali. È possibile che l’Iran abbia nascosto qualche impianto, ma tutto ciò che conosciamo, ossia quello che bombarderemo in caso di attacco, è sotto la sorveglianza degli ispettori internazionali. 
Se mai l’Iraq ci ha insegnato qualcosa è che bisogna accertare i fatti prima di inviare le truppe.
(c) 2012 New York Times 
News Service 
(Traduzione di Emilia Benghi)


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