Evo sfida l’Onu sulla foglia di coca “Non è una droga rendiamola legale”

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Questa volta è stato meno plateale del 2009. Ha evitato di tirare fuori una manciata di foglie di coca e di masticarle, come provocazione, davanti ai 183 rappresentanti dell’Onudc, l’Agenzia per la lotta alla stupefacenti e alla criminalità  delle Nazioni Unite. Ma non ha rinunciato a quella che considera una battaglia ancestrale, legata ad una tradizione che gli antropologi fanno risalire a due secoli prima della nascita di Gesù Cristo.
«Considerare le foglie di coca alla stregua di una droga», ha esordito Evo Morales, presidente della Bolivia, davanti ad una platea pronta a nuovi colpi di scena, «è un grave errore storico. Per milioni di boliviani, peruviani, cileni, argentini fa parte della loro vita, dei loro costumi. È la nostra identità . Il rito della loro masticazione ci è stato trasmesso dai nostri antenati, e continueremo a farlo. Per questo chiediamo che il loro uso venga depenalizzato e non facciano più parte della lista degli stupefacenti messi al bando nel 1961».
Ex segretario del potentissimo sindacato dei «cocaleros», i lavoratori impiegati nelle piantagioni di foglie di coca, l’attuale presidente della Bolivia è sempre stato il paladino di una tradizione che il mondo vorrebbe cancellare. Per le grandi potenze occidentali le foglie della pianta di coca equivalgono a cocaina. Le prime, sostengono, servono a produrre la seconda. Sono la base per ricavare la pasta. La quale, attraverso un procedimento chimico, si trasforma in una polvere bianca: la ricercatissima «neve», responsabile della devastazione di intere nazioni e in grado di gonfiare un fatturato di 290 miliardi di dollari l’anno. Ma è una tesi che Morales boccia in modo drastico. La differenza tra foglie di coca e cocaina, sostiene, è abissale. La coca, ammette, produce dipendenza. Ma ricorda anche che la sua illegalità  finisce per alimentare un mercato clandestino che si è trasformato nel secondo business, per profitti, al mondo.
La scienza non è giunta a conclusioni certe. «È ancora difficile», ha obiettato Youri Ferotov, direttore Onudc, «ottenere delle prove mediche convincenti». Evo Morales ha sfoderato trattati scientifici, statistiche ma soprattutto libri di storia. «Proibire il loro uso, penalizzare la loro masticazione, il rito dell’ «akulikù»» ha spiegato, «sarebbe come dichiarare illegale bere vino». La pianta ha origini tropicali e venne importata nelle regioni andine grazie alle migrazioni delle prime popolazioni del Continente sudamericano. All’inizio non era un bene di largo consumo. Furono i conquistatori spagnoli a diffondere le piante nelle terre che strappavano agli indigeni locali.
Scoprirono che quelle foglie verdi, amare, un po’ dure, avevano effetti benefici sugli indios usati come schiavi nelle ricche miniere di argento del Potosì. Bastava masticare un paio di foglie e passava tutto: la fame, il sonno, la stanchezza. Si riusciva a superare anche il «soroche», gli effetti provocati dall’assenza di ossigeno ad altezze che spesso superano i 4 mila metri. Una sacca di pelle con dentro una buona manciata di foglie faceva sempre parte della dotazione di ogni contadino delle Ande.
Ne afferravano qualcuna, se la infilavano in bocca, la trasformavano in un bolo, chiamato Acullico, che veniva poi fissato con un pezzetto di patata bollita o di cenere ricca di potassio, detto Lipta. La bocca finiva per trasformarsi in un laboratorio naturale. Gli alcaloidi contenuti nella foglia producevano quell’energia che bloccava i crampi della fame e consentiva di scavare nelle miniere ad altezze impossibili. Il presidente della Bolivia lo ha ricordato a tutti. Il suo paese vuole tornare a far parte dell’Onudc da dove era uscito nel 2009. Ha bisogno di finanziamenti nella lotta al traffico di droga. Soldi, in cambio della fine dell’«akulikù».


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