Il premier e Camusso, l’ultimo duello La leader: non avete voluto mediare

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ROMA — L’epilogo della trattativa sulla riforma del mercato del lavoro è un gelido faccia a faccia tra la leader della Cgil, Susanna Camusso, e il presidente del Consiglio, Mario Monti. Sono quasi le otto di sera e nella sala Verde di Palazzo Chigi l’incontro con le associazioni imprenditoriali e sindacali va avanti da circa 4 ore. Monti ha fretta di chiudere. Non ha mai amato i riti della concertazione. E fin dall’inizio della riunione ha detto chiaramente che vuole il giudizio di tutte le parti sociali su tutta la riforma, compreso l’articolo 18 (licenziamenti). Lo ha specificato anche al ministro del Lavoro, Elsa Fornero, che a un certo punto, prevedendo il no della Cgil, voleva sfumare sull’articolo 18. «No, è inutile. Lo sappiamo tutti che questo è il tema». È lui, Monti, il protagonista assoluto del vertice. Richiama più volte alla sintesi Fornero che si dilunga nell’esposizione puntigliosa della riforma. «Signori, per favore, stringiamo», dice chiudendo il pugno e interrompendo la discussione per portarla al punto di arrivo, quello nel quale tutti i leader attorno al tavolo devono dire sì o no alle proposte del governo. Sì o no alla modifica dell’articolo 18.
Sono tutti sì, uno dopo l’altro, dal presidente della Confindustria, Emma Marcegaglia, a Luigi Angeletti, il segretario della Uil che fino a ieri sembrava pronto al no, accanto alla Cgil. E ora invece formalizza il sì, perché — spiega Angeletti —, la Uil ha ottenuto che il giudice sia vincolato nelle sue decisioni alle causali disciplinari definite dai contratti, come aveva sempre chiesto. Camusso, che non ha ancora parlato, ascolta impassibile e comprende di essere rimasta sola. Non sa che sono stati il leader della Cisl, Raffaele Bonanni, e la presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, che in un precedente incontro con il leader della Uil lo hanno convinto a superare le ultime resistenze. La Cgil è di nuovo isolata sul no.
Adesso tocca a Camusso esprimere il giudizio della Cgil affinché Monti possa verbalizzare, secondo il nuovo metodo imposto dal premier alle parti sociali. Tutti gli altri hanno detto sì. A lei il compito di argomentare l’unico no. Dice: «Sull’articolo 18 non è stata tentata una mediazione. La proposta è rimasta tale e quale a quella che il governo aveva presentato all’inizio. Si tratta del terzo provvedimento, dopo le pensioni e le liberalizzazioni, che penalizza i lavoratori e le fasce sociali più deboli, che continuano a pagare un prezzo troppo alto. È il risultato di un governo che guarda solo ai mercati finanziari. Ma così si rischia di aprire una lunga stagione di tensioni».
Monti non si scompone: «Apprezzo la franchezza del suo intervento. Prendo atto del giudizio critico. Ma le rispondo che questo governo ha grande riguardo verso i deboli e i lavoratori. È vero che noi abbiamo guardato anche ai mercati perché non potevamo farne a meno. E anche per questo abbiamo evitato all’Italia situazioni come quelle della Grecia. Questo è il modo giusto per aiutare i più deboli, perché se il Paese fosse fallito sarebbero quelli che ci avrebbero rimesso di più». Il tono è pacato ma gelido. Da entrambe le parti. È una sfida fatta di parole soppesate e taglienti. Un duello dove gli altri fanno da testimoni.
Monti tenta l’ultima carta per evitare la rottura plateale chiedendo a Camusso se nel verbale si può scrivere un giudizio articolato della Cgil, distinguendo una posizione più favorevole sulla prima parte (contratti e ammortizzatori) da una più critica sull’articolo 18. Camusso chiude la partita sibilando poche parole: «No, il giudizio complessivo della Cgil è unico ed è critico». Monti ne prende atto, ma assume quell’aria contrariata che poi tutti hanno potuto vedere quando il premier è entrato in sala stampa. Forse non si aspettava la durezza della Cgil, soprattutto dopo l’appello dell’altro ieri del presidente Napolitano al senso di responsabilità  delle parti sociali. Forse sperava, appunto, in un giudizio articolato. Niente di più, perché aveva capito già  ieri mattina che il sì non ci sarebbe stato. Fornero e Camusso avevano litigato. E i contatti per la mediazione finale erano andati avanti di fatto solo con Cisl, Uil e Ugl. E questo farà  dire alla leader della Cgil che gli altri sindacati hanno ceduto rispetto alla linea sulla quale tutto il sindacato si era attestato ieri mattina nel vertice informale con Monti. L’unità  sindacale che sembrava ritrovata, uscito di scena Berlusconi, si è rivelata effimera. Bonanni già  rivendica alla Cisl la riforma. La Cgil si prepara a una mobilitazione dura e duratura.
La concertazione, da ieri, non esiste più. Nemmeno quella con una parte sola dei sindacati. Torna la politica a decidere. E paradossalmente è un governo tecnico a fare questa rivoluzione. La concertazione, tra alti e bassi, ha dominato l’ultimo decennio del Novecento e ha avuto una nuova fiammata sotto il governo Prodi con il Protocollo sul Welfare del 2007 col quale, tra l’altro, i sindacati (firmarono tutti) ottennero anche la correzione dello «scalone» Maroni sull’età  pensionabile. Poi, con il ritorno del governo Berlusconi si passò al «dialogo sociale», che di fatto fu una concertazione, se possibile anche più vincolante della precedente, ma solo con Cisl e Uil, come già  era stato nel precedente governo del Cavaliere. Ora con Mario Monti si è tornati alla normalità : il governo consulta le parti sociali, cioè le associazioni imprenditoriali e sindacali, sapendo che esse sono portatrici di «interessi particolari», come ha spiegato fin dall’inizio il ministro del Lavoro, Elsa Fornero, e poi «decide secondo gli interessi generali del Paese». Perché, come ha detto ieri Monti, il Parlamento resta «l’interlocutore principale» del governo.
In realtà , tutta la vicenda, come quella della riforma delle pensioni, è stata condizionata anche dal vincolo esterno: dall’Europa e dalla crisi economica.


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