La nostra passione per i questionari

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Come ben sanno gli specialisti della materia, il questionario celebre in tutto il mondo sotto l’etichetta di “Il questionario di Proust” non è affatto nato dalla mente dell’autore della Recherche. Proust si è limitato a rispondere due volte, a quattordici e a vent’anni, ma sempre con allarmante franchezza (La mia occupazione preferita? Amare), alle ormai celebri domande del salottiero test che talvolta, per acume, sembrano rubate a una rubrica di posta del cuore. No, il questionario di Proust, a cui è stato di recente dedicato un libro illustrato dalle caricature di Risko (Vanity Fair’s Proust Questionnaire, Rodale), è figlio di sconosciuti, ma è stato diffuso dalla figlia dell’ultimo presidente francese dell’Ottocento, Felix Faure, celebre per essere morto in una situazione all’epoca considerata imbarazzante, mentre faceva l’amore con la sua amante – guarda caso proprio come auspicano molte delle risposte al questionario in reazione alla domanda: «Come vorreste morire?».
La graziosa Antoinette, che teneva un salotto, aveva un album di cuoio rosso dove i sui ospiti invitati per il tè dovevano pagare dazio e rispondere per iscritto alle domande del succitato questionario. Proust, come abbiamo detto, ci cascò due volte, e pubblicò le risposte della seconda serie, sotto il titolo Confidences de salon écrites par Marcel, in un articolo del 1892. Ma il nome di Proust restò appiccicato al giochino, che fu adottato, tra gli altri, da Bernard Pivot per Apostrophes. Dall’americano James Lipton per la sua trasmissione. Da Vanity Fair, il mensile americano, che dal 1993 lo pubblica nella sua ultima pagina. Ed è proprio qui che da allora ha espresso le proprie passioni, esibizionismi, idiosincrasie, follie, fissazioni, speranze, povero sense of humour, il Gotha della cultura e dello spettacolo americano, mentre in tutto il mondo fioriscono imitazioni del questionario, lette compulsivamente da lettori che si chiedono intanto che cosa diavolo avrebbero risposto, e se con altrettanta prontezza dei brillanti signori intervistati. Mentre altri cercano di inventare questionari alternativi: come Facebook, che ha lanciato per un certo periodo 25 Random Things About Me, 25 domande casuali su di me, trovando un ampio riscontro nel mondo dei genietti ventenni proprio del genere di Mark Zuckerberg.
Il volume di Vanity Fair comincia con Robert Altman (il cui massimo rimpianto risulta essere «aver fatto questo questionario»), percorre una lunga lista di nomi celebri, da Arthur Miller a Joan Didion, da David Mamet a Norman Mailer, da Emma Thomson a Martin Scorsese, e, insieme, un elenco di pensieri spesso banali, qualche volta sorprendenti (ci credereste che l’occupazione preferita di Joan Collins è mangiare cioccolatini belgi mentre guarda un film di Billy Wilder?; o che la più grande paura di David Bowie, beato lui, è convertire i chilometri in miglia? Ma per fortuna c’è anche Larry King che, avendo avuto un attacco cardiaco, giura che, in prossimità  della morte, non ha «visto, luci, né angeli – niente»). 
Insomma, sarà  anche, questo questionario di Proust, un Rorschach salottiero, come sostengono molti, che svela tratti della personalità  di chi si confessa e di chi legge. Ma certo non esprime grandi originalità  di pensiero. Tutti o quasi, se proprio devono morire vogliono morire o dormendo, o come il papà  di Antoinette Faure (ed è interessante l’esempio di Hedy Lamarr, che auspica questa fine a 85 anni). Molti, troppi, faute de mieux (non si sono preparati? mica si può fare il test senza pensare che resta per la posterità ) scelgono come proprio motto quello inventato da Baden Powell per gli scout, «Be prepared», insomma, «estote parati». 
Ragion per cui si stacca dalla media di questa analisi da salotto il Waltermatthau pensiero. Matthau considera l’onestà  come la virtù più sopravvalutata. La odia soprattutto nelle donne. E come suo motto sceglie «Fuck you». All’anima dell’onestà .


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