Le ultime ore di Mohamed rivedendo il video della strage “Morirò con le armi in pugno”

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TOLOSA – Per arrivare al covo dell’Afgano bisogna superare una schiera di villette ordinate. Sono le case della ricca borghesia della Cà´te Pavée. Un cancello di ferro, la serratura allentata, due vasi di fiori, le piante. à‰ la porta di accesso al giardinetto che costeggia la facciata anonima dell’edificio al civico 17 di Rue du Sergent Vigné. L’inferno abita qui, a dieci passi dalla strada dove sono ancora parcheggiati i furgoni blindati del Raid (le teste di cuoio francesi, ndr). 
Eccola, la tana di Mohamed Merah: a sinistra del portone, girato l’angolo del frontale dell’edificio, ci sono tre finestre – quattro con quella del bagno – e un piccolo terrazzo. È in questo bilocale al piano rialzato che il killer di Tolosa ha fatto vedere al mondo come tutti – la polizia, l’antiterrorismo, i servizi di intelligence, le autorità  francesi – si fossero sbagliati su di lui: altro che bulletto di banlieue, macché «lo cattureremo vivo». 
«Perché non ti arrendi?», gli chiedono i negoziatori dei reparti speciali quando ancora accetta di parlare. «Perché non ho paura della morte, e non voglio finire i miei giorni in carcere». «Arrenditi, è meglio anche per te». E lui, duro: «Il mio arresto ve lo farò pagare, vi aspetto, morirò con le armi in pugno». 
Sangue freddo sempre, Merah. Anche quando serve il suo ultimo bluff: dopo mezzanotte, non sentendo più rumori dentro l’appartamento, pensano che lo scarafaggio si sia suicidato. O che il cuore gli sia scoppiato. Invece, come Scarface, si sta preparando a vendere cara la pelle, rintanato in trincea. «Vorrei uccidere più persone possibile», aveva minacciato da vero terrorista. Le armi in pugno, la contabilità  delle vittime, la fine da guerriero: l’ha preparata così, e va come voleva lui. Forse persino meglio: «Se tocca a me morire andrò in paradiso, se tocca a voi pazienza». 
Sono le 22.45 e Merah resisterà , asserragliato nel suo fortino, ancora tredici ore. In tutto saranno trentatre. Un tempo impossibile da dilatare, a meno che uno non si aggrappi alla pazzia incendiata dall’odio: mentre durante la lunga notte gli piovono addosso granate, mentre gli uomini del Raid gli sventrano porte e finestre con l’esplosivo cercando di spaventarlo e di mettergli pressione, il terrorista franco-algerino che fa? Schiaccia play sulla videocamera che teneva al collo e, per caricarsi, orgoglioso della sua folgorante carriera salafita, si riguarda le immagini delle stragi seriali: eccolo l’11 marzo, prima di stendere il paracadutista che ha tirato nel tranello con un annuncio di vendita, gli grida «tu uccidi i miei fratelli, io ammazzo te». Nel video successivo, è il 15 marzo, a cadere sotto gli spari sono gli altri due paracadutisti, quelli del 17 esimo reggimento di Montauban. Merah li fa secchi davanti alla caserma, poi fugge via a bordo della Yamaha T-Max gridando «Allah Akbar». Chiude la sequenza la strage dei bambini ebrei davanti alla scuola: lui che arriva in moto e semina il terrore, punta i piccoli alunni, spara e scompare nel nulla dopo avere registrato la scena. 
«Ho messo la Francia in ginocchio» – si vanta il terrorista tecnologico, parlando con i mediatori dell’esercito appostati fuori dalla casa-bunker. Sperano di essere riusciti a sfiancarlo, a prenderlo per sfinimento. Neanche per sogno. L’ultima notte diventa una palude di sabbie mobili: per tutti, anche per i poliziotti in assetto da guerra. Dopo l’ultimo contatto, nel bilocale al piano rialzato scende il silenzio. La sala con l’angolo cottura, il divanetto, la camera da letto dove tiene le pistole e i fucili. E il bagno. Che diventerà  l’ultimo fronte di difesa e di attacco. I soldati sono riusciti a infilarci una sonda video: lui se ne accorge, conosce tecniche e strategie militari, le ha imparate in Afghanistan, nei campi di inquadramento del Movimento islamico di Uzbekistan (Miu). 
L’ex carrozziere cresciuto nella borgata Lizards capisce che i poliziotti hanno capito. Non è morto, sta organizzando la sua offensiva. «Sono legato ad Al Qaeda, volevano affidarmi un attentato suicida», si era vantato la notte prima al telefono con una giornalista di France 24. Ma Merah a farsi saltare in aria non ci pensa nemmeno: lui vuole morire combattendo. Lo aveva raccontato anche a uno dei capi di Al Qaeda con cui era entrato in contatto – sempre parole sue, destinate ai mediatori – nella “palestra” del terrorismo salafita. Alcune fonti inquirenti parlano di quattro viaggi in Pakistan negli ultimi due anni. Secondo il procuratore della Repubblica di Parigi, Francois Molins, sono due, destinazione la regione pachistana di Waziristan. 
All’alba, Mohamed Merah non ha ancora recuperato la parola: ha deciso che sarà  guerra, colpo su colpo. Non si fa intimidire nemmeno dalle tre esplosioni delle dieci. Ormai è avvitato nella spirale di violenza. Quando alle 11,37 scatta l’irruzione, l’ex bulletto delle banlieue é barricato in bagno: felpa alla moda, jeans, tatuaggi. Imbraccia il Kalashnikov. Sfondano la porta e lui apre il fuoco. «Mai vista una violenza così inaudita», dirà  uno dei rambo del Raid. Merah centra tre «nemici», poi si lancia dalla finestra. È l’ultima fuga.


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