Pechino fa scorta e l’Iran fa paura

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A spingere il prezzo del greggio oltre la soglia dei 125 dollari a barile è la convergenza fra venti di guerra nel Golfo Persico e aumento vertiginoso delle scorte strategiche cinesi con conseguenze a pioggia: le economie emergenti in affanno, la crescita globale rischia di rallentare, Barack Obama teme di perdere la rielezione e le finanze degli ayatollah si risollevano.
Il costo di un barile di Brent del Mare del Nord ha toccato ieri i 126,26 dollari rispetto ai 96 dollari del mese precedente confermando un’accelerazione che, secondo una studio di Citigroup, può portare a raggiungere quota 130 dollari entro il terzo trimestre dell’anno e per uno rapporto di analisti asiatici trapelato da Kuwait City potrebbe arrivare addirittura a 142 dollari entro dicembre. La corsa al rialzo ha una duplice genesi in quanto sta avvenendo a Teheran e Pechino.
La riunione del Forum internazionale dell’Energia a Kuwait City, che riunisce i maggiori Paesi petroliferi inclusi tutti i membri dell’Opec, ha in agenda l’allarme-Iran ovvero la possibilità  che il mercato debba rinunciare nei prossimi mesi a quattro milioni di barili iraniani al giorno a causa dei venti di guerra che spazzano il Golfo Persico: colpita dall’embargo petrolifero che da giugno-luglio si estenderà  all’Unione Europa, Teheran minaccia per ritorsione di chiudere gli Stretti di Hormuz attraverso cui passa il 20 per cento delle esportazioni quotidiane globali di greggio e la crisi nel Golfo Persico minaccia ulteriormente di peggiorare in quanto la corsa degli ayatollah all’arma nucleare potrebbe spingere Stati Uniti o Israele a lanciare un attacco militare. Per il ministro del Petrolio saudita, Ali Naimi, la volatilità  dei prezzi è un problema che può essere risolto solo assieme alle questione iraniana» e il collega degli Emirati Arabi Uniti concorda che «il costo sale in reazione a quanto sta avvenendo in Medio Oriente» in quanto, sottolinea Shihab Eldin ex capo del settore ricerca dell’Opec, «il timore è che non vi sia la possibilità  di supplire ai quattro milioni di barili iraniani» in ragione del fatto che solo l’Arabia Saudita è in grado di aumentare la produzione ma non di tale quantità  quotidiana. A pesare è anche la lentezza con cui la produzione libica si sta riprendendo nel dopo-Gheddafi, soprattutto a causa della difficoltà  di scongelare i beni di proprietà  del colonnello.
Ad avvalorare lo spettro della carenza di greggio è il comportamento di Pechino che in febbraio ha acquistato 5,95 milioni di barili al giorno con un aumento del 18,5 per cento rispetto all’anno precedente – al fine di aumentare le scorte strategiche paventando il rischio di una crisi imminente. Se nell’ultimo trimestre del 2011 l’aumento delle scorte cinesi era avvenuto con prudenza, accumulando di 360 mila barili, in febbraio è stato forsennato: Sinopec ha moltiplicato le importazioni da Riad e acquistato centinaia di petroliere in navigazione da Medio Oriente, Russia e Africa con a bordo greggio imbarcato in gennaio e febbraio. È stato questo blitz a far lievitare il prezzo fino ai 122,66 dollari del 29 febbraio, provocando rialzi energetici nelle più rampanti economie asiatiche: Sud Corea, Taiwan e Thailandia hanno aumentato i prezzi al consumo mentre l’India ammette difficoltà  di bilancio. «Se il petrolio resterà  sopra i 125 dollari la domanda inizierà  a scendere» prevede Edward Morse, fra i maggiori esperti di petrolio ora in forza a Citigroup, lasciando intendere che può portare ad un rallentamento della crescita delle economie emergenti e ad un più marcato rallentamento dell’Europa. Ma non è tutto perché anche il presidente Barack Obama rischia: un sondaggio Cbs-New York Times attesta che la sua popolarità  in 30 giorni è scesa dal 50 al 41 per cento a causa dell’insoddisfazione popolare per l’aumento del prezzo della benzina che ha raggiunto 3,80 dollari a gallone (3,7 litri) ed è in vendita in alcuni Stati a 4,20 dollari. I rivali repubblicani lo incalzano: Newt Gingrich promette agli americani che «se sarò presidente porterà  il prezzo a 2,50 dollari» e Mitt Romney accusa la Casa Bianca di «essere responsabile di una situazione dovuta a eccesso di dipendenza dall’estero» avendo bloccato progetti nazionali come il megaoleodotto Canada-Golfo del Messico. Obama ribatte che «non ci sono soluzioni immediate e perfette per abbassare il prezzo» ma è un’ammissione di difficoltà . A conti fatti gli unici a guadagnare dall’attuale situazione sembrano essere gli ayatollah di Teheran, il cui bilancio resta in gran parte basato sulle entrate petrolifere.


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