Ritrovare il primato della cultura senza demonizzare l’economia

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Ma ogni civiltà  è stata un miscuglio di ingredienti, virtuosi e barbari. Le civiltà  possono essere tuttavia migliorate, aumentando le virtù individuali (la libertà  dei moderni) e quelle civiche (la libertà  degli antichi), combinando merito e uguaglianza.
Vi è nelle civilizzazioni tuttavia un fondo immutabile: sono sistemi in cui si intrecciano potenza, produzione, credenze e saperi. Basta guardare al sorgere della modernità  in Italia, intorno al 1500, segnata da una combinazione particolare di religione, scienza, esplorazione, commercio, espansione.
Ridurre patrimonio e produzioni culturali a merci significa mortificarne la qualità , ma depurare la cultura da qualsiasi nesso imprenditoriale, di servizio e tecnologico è altrettanto sbagliato. La vita è stata e sarà  marea fluttuante e imprecisa di alto e basso, bellezza e numero, immaterialità  e materialità : è il suo bello!
Proprio perché le civiltà  sono sistemi, le cui componenti sono utili l’una all’altra, ogni accentuazione estrema diventa anti-sistema, buona per una ideologia più che a una politica. Ad esempio, demonizzare banche, imprese e il desiderio individuale di arricchirsi e migliorare è il contrario di quel contemperare interessi particolari e generali in cui è il segreto delle democrazie liberali. Se tutto è speculazione orrenda ne deriva che tutta la politica è in eguale misura da condannare: ma vi è mai alcunché di uniforme fra gli umani? Si salvano unicamente coloro che si autorappresentano puri da principio e per sempre, maestri nell’autoescludersi dal tutto malefico da loro configurato e nel porsi in un altrove indeterminato e raffigurato incontaminato. È un modo subdolo e partigiano di mostrarsi al di sopra delle parti, senza esserlo.
Il qualunquismo massimalistico ha una sua ragione d’essere tragica in Italia, dove — per esempio — il culto del mattone e del consumo del paesaggio è stato trasversalmente fervido — neppure un piano paesaggistico regionale è stato ancora approvato — ma tale ragion d’essere è forse anche un rimedio, offre un progetto di sviluppo equilibrato, oppure convalida, suo malgrado, il brutto concreto cui si contrappone, proponendo astrazioni illimitate, salvifiche, impraticabili?
Se tutto il fare è parimenti malefico, se la Tav in val di Susa equivale al malfamato ponte sullo Stretto, l’anima si salva ma non si elabora un’idea di sviluppo integrata, innovativa, attuabile. Non tutte le opere pubbliche sono l’inferno. Esse e i lavori privati andrebbero orientati in primo luogo al mantenimento idro-geologico, al miglioramento degli edifici contro il rischio sismico, alla loro riconversione se degradati, a una cura particolare se storicamente e artisticamente rilevanti, per non dire dei paesini di collina e montagna da salvare ripopolandoli, delle ville da riusare, e ciò per salvare o riscattare il patrimonio edilizio nazionale, impedendo che altra campagna muoia soffocata nel cemento (in questi campi servono esenzioni fiscali).
Quale potrebbe essere, allora, un’idea di crescita alternativa alla crescita abnorme? Non una crescita quale che sia (come è avvenuto), neppure la non-crescita (figlia della disperazione), neanche una crescita in cui il bene comune sia contrapposto per principio al vantaggio di singoli, imprese e banche, come avviene nei regimi autoritari volti a «perfezionare» le democrazie. Serve al contrario un contemperamento faticoso e concreto dei diversi bisogni individuali, di gruppo e generali, fra loro combinati, nello spirito della costituzione e delle leggi. Dopo i tagli indiscriminati, bisogna tornare a investire in conoscenza, bellezza, ricerca e scuola. Sono da ricostruire non solo le nostre istituzioni ma anche la cultura. Verrebbe la tentazione di dire: investiamo soprattutto in cultura, ma purtroppo i mezzi sono e saranno limitati e i bisogni della nostra società  sono multiformi. Ma le priorità  stanno cambiando.
Secondo un recente questionario Istat, cui hanno risposto sul web 2.500 italiani, precedono salute, istruzione e servizi (oltre il 91 per cento), in posizione intermedia sono lavoro, ricerca, patrimonio culturale, relazioni sociali (tra il 76 e l’89 per cento) e in fondo stanno benessere economico, soddisfazione per la vita, partecipazione politica, sicurezza (tra il 30 e il 44 per cento). Il benessere personale è giunto sul proscenio e con esso i beni e le produzioni culturali: la Costituzione rivive. 
Il patrimonio culturale merita dunque, nell’opinione di questi cittadini, un investimento rilevante in cultura, ricerca e scuola, pari almeno a quello dei più avanzati Paesi europei come la Francia: una rivoluzione! È da sperare che il governo Monti o uno a venire, mi auguro dello stesso genere, osi elaborare un progetto di crescita in cui le varie componenti della nostra civiltà  si coagulino in un sistema significativo e virtuoso. Avremmo allora finalmente quel progetto innovativo e lungimirante che negli ultimi quarant’anni è mancato, degno di una società  oramai post-industriale dalla tradizione produttiva e culturale che il mondo da sempre ammira.
Pensiamo all’Italia romana: costruì vie che tagliavano campi e rivi dei valligiani di allora e che ora felicemente percorriamo; all’Italia medievale che rifece e inventò le città ; all’Italia del Rinascimento, che fu non in primo luogo culturale, come idealisticamente ancora si crede, ma un laboratorio frenetico e multiforme. Partita doppia combinata a pittura non fu il segreto del nostro primato? Traiamo dunque ispirazione dalla storia passata della penisola, in cui il globo riconosce le ragioni del nostro valore. Tornare a fare contrappunto, armonioso sistema a più voci: questo si deve.
Unire ingegno alla fatica, bellezza ai lavori senza gloria, intransigenza a mitezza, profondità  a lievità , dignità  al coltivare (colere) in tutti i modi tutti i campi umani è un’aspirazione audace e anche possibile. Siamo in attesa, non deve passare troppo tempo, se vogliamo rialzarci.
*Presidente del Consiglio superiore
per i Beni culturali


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