Alba di sangue a Kabul guerra nella zona verde

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Kabul è ancora al buio quando, prima dell’alba, viene svegliata dalle esplosioni, dalle raffiche di mitra e dal ronzare minaccioso degli elicotteri. Su una parte della città , quella più vicina ai quartieri di Shar-e-now e Wazir Akhar Khan, nella notte tra domenica e lunedì tornano a echeggiare, rumorosi e amplificati dal silenzio notturno, i colpi della battaglia. La stessa che qui, nella capitale di un paese in guerra, va avanti a intervalli irregolari da domenica all’ora di pranzo, quando gruppi di ribelli danno il via, con una strategia coordinata e con una serie di attacchi simultanei, a una delle operazioni più clamorose degli ultimi anni. Un’operazione ambiziosa, che coinvolge le province di Nangarhar, Paktia e Logar, tra le più turbolente del paese, dove i talebani e altri movimenti antigovernativi esercitano da mesi un ampio controllo, facendosi sentire con attacchi e incursioni mordi e fuggi. 
Ma è Kabul, simbolo del potere politico nazionale e internazionale, l’obiettivo principale. Sotto i colpi dei Talebani finiscono il Parlamento afghano, il palazzo presidenziale di Karzai e l’intera area che ospita molte ambasciate straniere. Ed è proprio qui, nel cuore della capitale, nel perimetro che circoscrive idealmente l’ingombrante presenza degli stranieri – protetti da alte mura di cemento, filo spinato e dalla costante presenza di soldati – che intorno alle tre del mattino inizia uno degli scontri più intensi. Il risveglio è brutalmente contrassegnato da una prolungata serie di esplosioni e dal bagliore dei colpi che illuminano la notte, interrotti solo dai richiami dei muezzin per la preghiera del mattino. Ci vogliono tre lunghissime ore prima che le armi tacciano di nuovo. Al mattino, la polizia e l’esercito afghani presidiano ancora l’edificio in costruzione dove, dal giorno prima, era asserragliato un gruppo di guerriglieri, armi in pugno. Di fronte all’edificio – che si trova a due passi dall’entrata laterale dell’ospedale di Emergency, davanti alla clinica privata «Kabul Curative Clinic» -, stazionano, accovacciati, una trentina di afghani, molti curiosi, qualche perditempo, un paio di ragazzini che si propongono come interpreti o «facilitatori» ai cronisti stranieri arrivati fin qui. A tutti è concessa la macabra occasione di guardare da vicino uno degli assalitori: all’interno di una delle guardiole della polizia che costellano il panorama di Kabul, di fronte all’edificio occupato dai guerriglieri, è adagiato, inerme, un ragazzo sui vent’anni, il volto e le mani insanguinate, le braccia contratte, come richiamate dal corpo già  rattrappito, i sandali, neri e impolverati come i riccioli neri, slacciati. C’è chi getta uno sguardo dentro la guardiola e subito si ritrae, impressionato dal volto della morte – che nella sua crudezza non fa distinzione tra civili innocenti e guerriglieri decisi a immolarsi nella guerra contro gli occupanti; c’è chi, invece, non nasconde la soddisfazione, tornando a casa con una cimiteriale foto souvenir. 
Dopo una breve negoziazione con la polizia che ne controlla l’accesso, riusciamo a entrare nell’edificio: 6-7 piani, uno scheletro di cemento e, all’interno, oltre a travi di acciaio, ferri, bitume e sabbia, i resti della battaglia. Sui pavimenti, centinaia di bossoli, sulle poche pareti già  costruite, i fori dei colpi degli Rpg. Gli uomini dei servizi segreti e delle forze speciali americane effettuano l’ennesimo controllo, prima di lasciar entrare un gruppo di artificieri con un cane in cerca di esplosivi. Lungo le scale, quasi messi in posa, i corpi di altri due guerriglieri, all’interno di una stanza, quello di un loro compagno, la testa quasi esplosa, il sangue sulla parete. Su di loro, i soldati afghani impongono con cinica indifferenza il rituale della foto. 
Quelle foto, ci accorgeremo nel corso del pomeriggio, raccogliendo interviste in città , dopo poche ore circoleranno sui social network usati dai giovani afghani, assuefatti alla morte tanto da scambiarsele via facebook. «Eccoli i terroristi – mi dice Hamid, poco meno di vent’anni, all’interno di un internet cafè di Shar-e-now -. Si vede benissimo che sono pakistani», aggiunge sicuro. Non è il solo a pensarlo, qui a Kabul, dove la maggior parte della popolazione nutre sentimenti di profonda insofferenza verso il Pakistan, accusato di sostenere i gruppi ribelli. Le parole dei funzionari afghani del ministero dell’Interno e degli Esteri, che nel pomeriggio di ieri hanno alluso più o meno direttamente alla responsabilità  dei servizi segreti pakistani, trovano terreno fertile. Che siano i membri della rete Haqqani o altri gruppi antigovernativi (vedi articolo sotto), l’obiettivo è lo stesso, ha dichiarato il ministro degli Interni Bismillah Mohammadi: «I terroristi cercano di far deragliare il processo con cui viene trasferita la responsabilità  della sicurezza alle forze afghane. Vogliono impaurire la gente». 
A dispetto delle quattro vittime civili, dei 35 guerriglieri uccisi e degli almeno nove soldati afghani rimasti sul terreno, e nonostante 18 ore di battaglia quasi continua in diverse zone della città , gli abitanti di Kabul non sembrano così preoccupati. Forse perché abituati da troppo tempo a un quotidiano fatto di incertezze. Forse perché, oltre alla sicurezza, hanno altri pensieri per la testa. 
Nel bazar c’è il solito via vai; allo zoo, le solite famigliole che portano i figli ad ammirare animali rinsecchiti dagli occhi tristi e sconsolati; sotto i ponti del quartiere di Kart-e-Se, i soliti drappelli di uomini e ragazzi, dimentichi di loro stessi e di ciò che gli succede intorno, grazie agli effetti di oppio ed eroina a buon prezzo. 
Nella sala da tè del Pashtunistan Hotel, un albergo sgangherato con una terrazza che si affaccia sul fiume e sul bazar, incontro alcuni commercianti. Con loro c’è Niamatullah – già  studente della Islamic Azad University, oggi attivo in una Ong -, che condanna senza esitazioni gli attacchi e che risponde indirettamente alle nuove minacce di uno dei portavoce dei Talebani, che con un comunicato stampa ha tuonato: «L’operazione di questi giorni è un messaggio che prelude all’offensiva di primavera, che non è ancora cominciata – ha sostenuto Mujahid – L’offensiva comincerà  presto e verrà  presentata con il suo nome e con i suoi obiettivi specifici». «Che la lancino pure la loro offensiva di primavera, dice tra il rassegnato e il rancoroso Niamatullah – ci siamo abituati, e Kabul dopotutto continua a rimanere un posto molto più sicuro rispetto ad altre zone del paese. Quel che ci preoccupa non sono tanto i Talebani o chi per loro ma quello che ci riserva il futuro». 
Per ora, si tratta di un futuro incerto: dopo dieci anni di presenza in Afghanistan, la comunità  internazionale ancora non è riuscita ad avviare la tanto annunciata ricostruzione; le istituzioni statali sono deboli e corrotte; le vittime civile aumentano ogni anno, come documentano i rapporti della missione Onu e della Commissione indipendente per i diritti umani; gli afghani, sono sempre più disillusi e frustrati. E sempre più consapevoli che, a dispetto delle promesse fatte finora, c’è il rischio che a partire dal 2014 – quando la gran parte dei soldati stranieri verrà  ritirata – il paese sarà  nuovamente dimenticato, la popolazione lasciata a contare le vittime e a fare i conti con le macerie di dieci anni di occupazione. Per questo, oltre che alle sanguinose vicende di questi giorni, molti guardano ai prossimi mesi quando, prima a Chicago nel summit della Nato, poi a Tokyo, a luglio, nel vertice dei donatori, verranno meglio definiti i piani di «disimpegno» della comunità  internazionale. Per Niamatullah, «i leader che si incontreranno a Tokyo rischiano di fare più danni di quanti ne abbiano fatti oggi i Talebani».


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