Il falsario. “Ho creato vite di carta per l’umanità  in fuga”

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Un libro che l’anziano padre sfoglia con un po’ di nostalgia nel suo appartamento parigino proprio sotto la torre Eiffel. «Volevo diventare un artista ma la vita ha deciso diversamente. Tutto era talmente urgente che non ho neppure avuto il tempo di avere rimpianti», dice mostrandoci le sue intense foto di Parigi che l’anno prossimo verranno proposte al pubblico in una grande esposizione. «Durante tutti quegli anni ho solo fatto quello che credevo fosse giusto fare. Sono diventato un falsario perché credevo nella giustizia e detestavo il razzismo. Lottavo per un mondo dove non ci fosse più bisogno di falsificare documenti, dove la gente non dovesse più scappare e nascondersi».
La sorprendente storia di Kaminsky comincia nel furore della Seconda guerra mondiale. Nel 1942, a diciassette anni, è uno dei tanti che in Francia sono costretti a nascondersi per sfuggire alle retate dei nazisti. La sua è una famiglia di ebrei russi, emigrati in Francia all’inizio del secolo e poi espulsi nel 1917, finiti in Argentina, da dove rientreranno a Parigi all’inizio degli anni Trenta, ritrovandosi però in trappola quando i tedeschi occupano il paese. All’inizio della guerra, il giovane Adolfo ha solo un diploma di scuola elementare, ma studia la chimica da autodidatta e intanto lavora come apprendista tintore. Per procurare documenti falsi ai suoi familiari, entra in contatto con un gruppo della Resistenza ebraica, proponendo le sue competenze nel campo degli smacchiatori. E così che in poco tempo diventa «il tecnico», uno dei migliori falsari della Resistenza: «Sono nato e cresciuto nel rispetto della legge, quindi la prima volta che ho falsificato un documento, sebbene fosse per una causa giustissima, ho provato un enorme senso di colpa».
Nel laboratorio clandestino di rue des Saints Pères, mentre fuori la caccia agli ebrei si fa sempre più feroce, il giovanissimo falsario fabbrica documenti di ogni tipo. Passaporti, carte d’identità , tessere annonarie, certificati di nascita e di battesimo: «La gente da mettere in salvo era moltissima e a ciascuno dovevamo fornire più documenti per ricostruire un’intera identità . Avevamo tantissime domande ed eravamo sempre con l’acqua alla gola». Una volta, in soli tre giorni fabbrica novecento documenti per mettere in salvo trecento bambini ebrei. Impresa per cui nel dopoguerra verrà  ufficialmente decorato. «Ma il merito non fu certo solo mio, eravamo in molti a darci da fare», si schermisce lui con modestia. «Conoscevo la chimica, ma anche la fotografia, la pittura, il disegno e la calligrafia. Tutto ciò mi ha permesso d’inventare nuove tecniche di falsificazione. E soprattutto ero convinto che tutto fosse possibile. Se qualcuno avevo fatto qualcosa, non c’era ragione perché io non fossi capace di rifarla. Quindi qualsiasi documento era riproducibile, anche i passaporti tedeschi».
Quella vita frenetica e clandestina naturalmente era molto rischiosa e più di una volta Kaminsky si salva per un soffio: «Il pericolo era quotidiano, ma in quanto ebreo ero più protetto facendo documenti falsi per la Resistenza che vivendo nascosto in una tintoria. Nell’azione c’è maggiore possibilità  di salvarsi, anche se purtroppo in quegli anni ho perso molti amici ammirevoli. È un miracolo che sia ancora vivo. Forse ho avuto la fortuna di non commettere errori e poi sono sempre stato molto protetto. Ci sono persone che anche sotto tortura non mi hanno mai denunciato».
Alla liberazione di Parigi entra nei servizi segreti dell’esercito francese, dove continua a fare documenti falsi per gli agenti paracadutati dietro le linee tedesche. Nel dopoguerra però, quando i francesi iniziano a impantanarsi nella guerra d’Indocina, lascia l’esercito per coerenza con le sue convinzioni pacifiste. Oltretutto, in quel periodo inizia ad aiutare gli ebrei desiderosi di stabilirsi in Palestina nonostante il divieto degli inglesi: «All’inizio volevo andarci anch’io, ma rinunciai quando, con la nascita d’Israele, la religione divenne di Stato. Non sono credente e sono stato educato al di fuori di ogni religione. Per me, quindi, la fede è sempre stata solo un fatto privato». Il falsario però non smette di lavorare. Negli anni Cinquanta entra in contatto con il gruppo di Francis Jeanson che appoggia l’Fln nella lotta per l’indipendenza dell’Algeria: «Impegnarmi al fianco degli algerini è stato naturale come lo era stato difendere gli ebrei. Non ci sono razzismi cattivi e razzismi buoni. Gli uomini sono tutti uguali e hanno tutti gli stessi diritti, indipendentemente dalla religione, dalla razza e dal colore della pelle».
Per sfuggire alla caccia della polizia francese, Kaminsky è costretto a nascondersi per due anni in Belgio, dove lavora giorno e notte, aiutando centinaia di militanti. «Nessuno è mai stato arrestato per via dei miei passaporti falsi, i poliziotti non li hanno mai scoperti, neanche gli svizzeri che consideravano i loro passaporti infalsificabili», dice oggi con una punta d’orgoglio. E non a caso in quegli anni la sua fama non smette di crescere. Alla sua porta bussano rivoluzionari di ogni latitudine, esuli in fuga dalle prigioni di Salazar, dissidenti della primavera di Praga. A tutti fornisce nuove identità  sempre gratuitamente, dato che non ha mai voluto essere scambiato per un mercenario. Tra i tanti che gli chiesero aiuto ci fu anche Giangiacomo Feltrinelli, di cui si ricorda ancora bene: «In passato aveva aiutato l’Fln durante gli anni della guerra d’Algeria, aveva offerto finanziamenti ma anche aiutato materialmente, come quando nascose in Italia alcune militanti evase dalle prigioni francesi». Kaminsky racconta di avergli fatto dei documenti falsi e gli procurò un alloggio a Parigi da un amico pittore. Come faceva spesso con i militanti di altri paesi, insegnò all’editore italiano alcune tecniche di falsificazione perché potesse essere indipendente: «Era un buon allievo. Un uomo gentile e simpatico, ma con un carattere un po’ autoritario. Infatti abbiamo anche litigato, perché pretendeva che fossi a sua completa disposizione. Ma io non potevo certo lavorare solo per lui. Finito il periodo di formazione, è ripartito per l’Italia e non l’ho mai più rivisto. Quando mi giunse la notizia della sua morte, avevo ormai smesso di fare il falsario».
Tra i molti che si avvalsero del suo talento ci fu anche Daniel Cohn-Bendit, all’epoca leader studentesco del maggio ’68 espulso dalla Francia, a cui fornì un nuovo passaporto per poter rientrare a Parigi sotto falso nome: «Pur non essendo, come i miei clienti abituali, un rivoluzionario in fuga dalle dittature, l’ho aiutato lo stesso per sbeffeggiare le autorità  francesi che non avevano alcun diritto di vietargli l’ingresso nel paese. Non era certo un pericolo pubblico né un terrorista». Terrorismo, una parola che a Kaminsky non piace. Proprio l’incombere della violenza lo spingerà  a interrompere la sua attività  e a ritirarsi in Algeria, dove resterà  una decina d’anni: «Io sono sempre stato un non violento e non volevo avere nulla a che fare con il terrorismo. E invece sempre più spesso tentavano di rivolgersi a me giovani con uno spiccato gusto per le armi che non erano certo dei perseguitati politici. Così decisi di smettere».
Da allora Kaminsky non ha più fatto un solo passaporto falso. Senza rimpianti. E oggi, dopo tante avventure, si gode una vita tranquilla, guardando incredulo questi nostri tempi dove «c’è chi – i sans papiers – a causa della mancanza di documenti in regola viene trattato come uno schiavo». A loro però i suoi passaporti non servirebbero perché «con i documenti falsi non si costruisce una vita, si può solo attraversare una frontiera o nascondersi». Parola di uno che se ne intende.


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