Il Senatur e il via libera a Bobo leader «Ma io resto come garante dell’unità »

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MILANO — «La Lega deve restare unita e, in questo momento, tanti guardano a te. Ma io non esco di scena. Anzi: io sono e resterò il garante dell’unità  della Lega». Nella notte bergamasca, Umberto Bossi è a capotavola. Alla sua destra, Roberto Calderoli. A sinistra, Roberto Maroni, il destinatario delle parole di colui che, a dispetto delle dimissioni da segretario, resta «il Capo». Il convivio è assai più vasto: una settantina tra dirigenti e militanti che hanno partecipato alla serata dell’orgoglio padano appena conclusa.
Il popolo leghista ha letto nella serata il passaggio della bandiera tra il leader storico, Re Lear tradito da figli adulatori, e Roberto Maroni, l’erede che non ha mai voluto blandire l’anziano sovrano e che per questo è stato sul punto di essere diseredato. Eppure, il re di Padania non è pronto a ritirarsi. Sembra aver accettato che a venire dopo di lui, con il Congresso Federale che si svolgerà  nell’ultima domenica di giugno, sia il leader dei Barbari sognanti. Ma avvisa: quella del successore non sarà  monarchia assoluta.
Di certo, questo non è il più piccolo dei problemi del capo leghista in pectore. Anzi, lo stesso ex ministro dell’Interno, riferiscono gli amici, è assolutamente consapevole che la strada verso la leadership non sia una discesa in slittino. Il primo problema, in ordine di arrivo, è certamente l’affaire Rosi Mauro. Secondo alcuni, non necessariamente nemici «del Bobo», Maroni l’altra sera si è esposto molto nell’annunciare che alla vicepresidente del Senato «penserà  la Lega». Perché nel Consiglio Federale che si svolgerà  oggi in via Bellerio ci sarà  chi tira il freno a mano con tutte e due le mani rispetto alla promessa espulsione della «Badante». Un dirigente leghista, la racconta così: «Lei, ospite di Bruno Vespa, si è difesa come una leonessa. Se soltanto una delle cose che ha detto si rivelasse falsa, di problemi non ce ne sarebbero più. Però, fino a quel momento, a che titolo la si espelle, visto che neanche è indagata e che è al centro dell’attacco dei giornali dei poteri forti? Certo, l’impatto sui militanti di qualunque soluzione diversa dalla pulizia radicale sarebbe devastante. Resta il fatto che il Consiglio Federale è quello che è». Maroni, per superare l’ostacolo, ha fatto riferimento al poco noto «codice etico» della Lega. E ieri sera, sempre da Vespa, ha osservato che «quando la Lega ha deciso, Umberto Bossi ha fatto un passo indietro senza essere indagato. La Mauro dovrebbe farlo per questioni di credibilità  e correttezza». Resta il fatto che fioriscono le ipotesi. Una per tutte, quella di compromesso, la massima sanzione tolta l’espulsione. E cioè, la sospensione per nove mesi. Che comporta, tra l’altro, il declassamento a semplice sostenitore e dunque l’incandidabilità  alle prossime politiche.
In secondo luogo, esiste un problema di regole. L’articolo 15 dello statuto leghista sancisce che «il Presidente e il Segretario Federale devono appartenere a due diverse Sezioni Nazionali». Che significa? Che secondo la carta fondante del movimento, non possono coesistere un Bossi presidente con un Maroni segretario (lombardi entrambi). Secondo i benevoli, un’inconsapevole distrazione rispetto alle tavole della legge, frutto dei momenti concitati. Secondo i maligni, il cavallo di Troia che permetterebbe ai veneti di reclamare la segreteria — ed è qui che entrerebbe in scena Luca Zaia, a dispetto del suo schermirsi — oppure l’alquanto improbabile revoca di Bossi dalla carica di presidente, fino a giovedì scorso ricoperta dall’emiliano Angelo Alessandri. Gli amici del capo dei Barbari sognanti sono al lavoro per preparare emendamenti in grado di superare il problema.
Inoltre, la formula del triumvirato ai vertici del movimento, frettolosamente sancita nel giorno delle dimissioni di Bossi, sarebbe non adeguatamente rappresentativa. Un direttorio che dovrebbe garantire massima rappresentatività . Ferma restando quella del lombardo Maroni, meglio sarebbe una trimurti della indiscutibile autorevolezza rispetto alle grandi «nazioni» padane. Ipotesi: meglio Roberto Cota che Roberto Calderoli, meglio Luca Zaia — di nuovo lui — che Manuela Dal Lago.
Mica finita. Esiste anche un problema di Consiglio Federale. Il massimo organo politico del Carroccio, formato da un gran numero di membri di diritto di emanazione bossiana, «rappresenta — secondo un maroniano convinto — la vecchia Lega. Che, come tale, non ha alcun interesse a rendere la vita più facile al Bobo. Anzi». Gli strateghi vicini al primo barbaro, inoltre, si pongono il problema che sempre più viene agitato dai nemici interni. Sintetizzato dalla domanda: «Poteva un dirigente del suo rango, già  ministro dell’Interno, non sapere?». Ferma restando l’opacità  dei conti leghisti, gli amici sottolineano «l’indiscutibile estraneità  di Maroni al gruppo che circondava Bossi. I problemi sono venuti dal cerchio magico, nato proprio per non far sapere nulla a Bossi e nulla fuori».
C’è, infine, il rapporto con Roberto Calderoli. I fondamentalisti maroniani lo vedono come il più insidioso dei nemici, dominus quale è di via Bellerio e della struttura del partito. Loro l’idea, superata dall’anticipazione del Congresso Federale, di una contestazione del coordinatore delle segreterie nazionali nella «sua» Bergamo. Maroni sembra non avere deciso se aprire un altro fronte. Eppure, giurano in parecchi, «l’equilibrio resta instabile».


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