Un’altra battaglia di obbedienza civile

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Mi ricollego all’incisivo articolo di Gianni Ferrara pubblicato su questo giornale il 18/4, laddove si sosteneva che l’unica strada rimasta per fronteggiare lo scempio costituzionale, inveratosi con l’introduzione in Costituzione del pareggio di bilancio, fosse il ricorso ad una proposta di legge popolare. Ancora una volta appare, dunque, chiara la necessità  di ricorrere a modelli di democrazia alternativa, rispetto ad una democrazia della rappresentanza che si esprime, con sempre maggiore frequenza, attraverso atti violenti ed autoritari, in attuazione di un indirizzo politico espresso dai mercati finanziari, dalla Bce e dal fondo monetario internazionale. Resta ovviamente, anche in questo caso, la frustrazione che il testo dovrà  “passare” per l’approvazione parlamentare e quindi presumibilmente posto in qualche “cassetto” polveroso di Montecitorio. Il ricorso alla legge d’iniziativa popolare è una strada necessaria e importante da intraprendere da subito, che può avere l’effetto di una mobilitazione partecipativa di resistenza, e dove possibile di disobbedienza, rispetto alla devastazione dello Stato sociale e alla negazione delle politiche economiche; perché – sia chiaro – di questo parliamo quando si parla di pareggio di bilancio. E da subito va chiarito che ancora una volta, dopo la “truffa” del Decreto Ronchi sulla privatizzazione dell’acqua, si utilizza il diritto comunitario per approvare atti dal contenuto eversivo. Infatti, è assolutamente falso che il diritto comunitario imponga agli Stati di modificare le proprie Costituzioni con l’introduzione del pareggio di bilancio. Il preambolo del Trattato del 2 marzo 2012, firmato da tutti gli Stati membri, ad eccezione del Regno Unito e della Repubblica ceca, sul coordinamento e sulla governance nell’Unione economica e monetaria, non impone modifiche costituzionali, ma un anomalo controllo sul rispetto del pareggio di bilancio affidato alla Corte di Giustizia, ovvero l’organo che rappresenta la massima espressione della tecnocrazia e il massimo distacco da qualsivoglia circuito democratico decisionale. Ma al di là  della gravità  di aver utilizzato in maniera impropria e strumentale l’istituto della revisione costituzionale, occorre ricordare che la garanzia dei diritti fondamentali, tra i quali ovviamente sono inclusi i diritti sociali, rappresenta un principio fondamentale della Costituzione italiana e configura un’ipotesi classica di limite alla prevalenza e/o ingerenza del diritto comunitario sul diritto interno. Quindi, in caso di contrasto tra diritto comunitario e diritto interno prevalgono i principi costituzionali e il governo italiano avrebbe potuto e dovuto da subito anteporre la difesa della Costituzione a regole eversive poste dai mercati finanziari, piuttosto che comportarsi da “bravo scolaretto”. Il rispetto delle identità  nazionali, e quindi dello Stato sociale, così come declinato nella nostra Costituzione, è ampiamente ribadito da ultimo dall’art. 4, paragrafo 2, del Trattato sull’Unione europea. Pertanto, la difesa dello Stato sociale rappresenta un’ipotesi di limite all’esercizio del potere di revisione costituzionale. Ritengo che la legge che, tra l’altro, è stata approvata con una maggioranza tale da impedire il ricorso all’istituto del referendum confermativo, sia incostituzionale e pertanto occorra attivare tutti gli strumenti affinché la questione sia posta quanto prima all’attenzione della Corte costituzionale chiedendo l’immediato annullamento del testo. Il pareggio di bilancio introduce un principio contrastante con la prima parte della Costituzione, in particolare con l’art. 2 , nella misura in cui l’obbligo del pareggio può determinare una violazione di diritti definiti “inviolabili”; ma anche con l’art. 3, in quanto per la stessa ragione si viola il principio di uguaglianza sostanziale sancito nel secondo comma, che caratterizza la nostra forma di Stato sociale e soprattutto costituisce l’elemento fondativo delle politiche sociali e l’effettività  della democrazia sostanziale. Come è noto, vincoli comunitari, prima dell’attuale riforma costituzionale, avevano indotto lo Stato italiano ad approvare un patto di stabilità  interno: ciò sta determinando una forte compressione della capacità  delle autonomie locali di far fronte alle funzioni che la Costituzione assegna loro (art. 118 C.), e che prevede che siano integralmente finanziate con le risorse indicate nello stesso testo dell’art. 119 C. Ciò, in particolare, ha determinato una violazione del principio autonomistico degli enti locali, di cui all’art. 5 C., ripreso anche dall’art. 114 C. Quest’ultimo ha rafforzato tale principio, in particolare con riferimento agli enti locali prevedendone direttamente in Costituzione il fondamento dei loro statuti, poteri e funzioni. La legge costituzionale che modifica l’art. 81, accogliendo con “le tipiche ambiguità  italiane” i vincoli comunitari per gli Stati, parallelamente modifica anche l’art. 119 C., ove il comma 1 è così sostituito: «I Comuni, le province, le città  metropolitane e le Regioni hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa, nel rispetto dell’equilibrio dei relativi bilanci, e concorrono ad assicurare l’osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall’ordinamento dell’Unione europea». In sostanza si “costituzionalizza” il patto di stabilità  interno, ma come per l’art. 81, tale operazione non risolve i problemi di costituzionalità  in quanto alla stessa legge costituzionale è vietato di violare principi costituzionali, nella fattispecie il principio autonomistico. Si predisponga fin d’ora una proposta di modifica dell’art. 81 C. e ci si organizzi per la raccolta di firme per la difesa dello Stato sociale, evidenziando che si è in presenza di una riforma incostituzionale, al fine di predisporre parimenti tutti quegli atti necessari per portare la questione dinanzi alla Corte costituzionale. Insomma, occorre far partire nel nostro Paese un’altra grande mobilitazione tale da invitare le istituzioni all’obbedienza civile e al rispetto della Costituzione.


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