Giulietta e Romeo a Bagdad il Bardo conquista gli arabi
Il fantasma del Bardo si aggira per Bagdad. Nei vicoli polverosi di Sadr City, fra i palazzoni di Adamiyah sfregiati da mille battaglie, sotto i ponti sul Tigri mozzati dalle bombe. Non è un veleno o un pugnale a prendersi stavolta la vita di due giovani amanti ma un attentato suicida. In un Paese devastato dalla guerra settaria con migliaia di morti, due giovani subiscono il pregiudizio delle famiglie che li ostacolano: lei è sunnita, lui sciita. Le armi hanno sostituito le spade e gli attori, che parlano un dialetto arabo, indossano l’abito tradizionale iracheno. E per la messa in scena sono stati abbandonati gli sfarzosi palazzi italiani rinascimentali per lasciare spazio alla miseria vissuta dagli iracheni nel corso degli ultimi 9 anni con i dialoghi adattati ai tempi d’oggi pieni di riferimenti, ai Blackwaters (mercenari pagati dal Pentagono), Jihad, generali americani, influenze iraniane e lo sforzo Usa per la ricostruzione.
La disfida fra Montecchi e Capuleti in questo “Romeo and Juliet a Bagdad”, una rilettura moderna in salsa araba del dramma che Shakespeare ambientò nella Verona del XVI secolo, è andata in scena con buon successo al Teatro Nazionale della capitale irachena – risorto dopo anni di oblio, dove le arti drammatiche erano state degradate a elemento di propaganda per il raìs – e adesso approda al World Festival Shakespeare a Stratford-upon-Avon, la città natale del drammaturgo inglese.
Monazel Daoud, famoso attore e drammaturgo iracheno che firma la regia di “Romeo e Giulietta”, ha lavorato alla sceneggiatura per quasi due anni. Le parole sunniti e sciiti non sono direttamente menzionate nei dialoghi fra gli attori, ma sono simboleggiate in modo chiaramente riconoscibile a un pubblico arabo e non. I maschi dei Capuleti, la famiglia di Giulietta, indossano una kefiah a scacchi rossi e bianchi tradizionale fra i sunniti. Quella del padre di Romeo Montecchi è a scacchi neri e bianchi, più comunemente usata dagli sciiti. I due ragazzi al centro della contesa familiare, restano personaggi classici dell’amore tragico, colpevoli di aver ascoltato i loro istinti voltando le spalle alle loro famiglie e all’ordine sociale a cui tutti dovrebbero conformarsi. Un dramma che si addice alla società araba – così arcaica e immobile nelle sue articolazioni: il clan, il gruppo, la famiglia; l’orgoglio, l’onore, il rispetto, il sangue – dove le famiglie riconciliate dal sangue dei loro figli pongono fine alla loro guerra.
Molti dittatori arabi hanno avuto un debole per William Shakespeare e sulle sue origini – rimaste sempre indefinite – in Medio Oriente sono sorte molte leggende. Uno di questi raìs, giustiziato lo scorso anno dai suoi successori, sosteneva addirittura che il Bardo di Avon fosse arabo e che le sue novelle fossero state plagiate prima da favolisti e narratori arabi e poi fossero arrivate in Europa. Si chiamava, secondo lui che vantava ricerche approfondite sulla materia, Sheik Speare ed era figlio di Sheik Zubair.
Anche a Saddam Hussein piaceva Shakespeare. Soprattutto “Il mercante di Venezia” perché poteva strumentalizzarlo a fini anti-semitici, facendo calcare la mano sul personaggio dell’usuraio ebreo Shylock. Ai suoi tempi era un fiore all’occhiello del programma teatrale iracheno. Ma le produzioni teatrali che fiorirono in Iraq negli Anni Cinquanta, dopo l’indipendenza dalla Gran Bretagna, vennero man mano spazzate da decenni di guerra, sanzioni e la violenta censura che Saddam faceva esercitare ai suoi scherani. Lo stesso regista di “Romeo e Giulietta”, Daoud, lasciò l’Iraq nel 1980 inseguito dalla polizia segreta di Saddam che non aveva gradito un suo primo lavoro teatrale. E per anni ha vissuto come un artista in fuga, a Stoccolma, a Londra, a Damasco, in Russia e negli Usa.
Uno sforzo per recuperare l’antica tradizione del teatro in Iraq per una nuova generazione di artisti, sta nelle interpretazioni dei due giovani attori che appaiono come Romeo e Giulietta. «Questo è uno spaccato della società irachena, è la sofferenza di una generazione, è una prova d’amore», racconta Moneka Ahmed Salah, 23 anni, Romeo sulla scena. Sarwa Malik, anche lei ventitré anni, è forse ancora di più dentro il personaggio di Giulietta. Perché anche lei era una “Giulietta” irachena a cui è spettato un destino diverso. Sulla scena il suo personaggio è sunnita, ma nella realtà Sarwa è una curda sciita. Tre anni fa – racconta lei – al college si innamorò di un bel ragazzo sunnita. Ma iniziarono subito le pressioni della famiglia perché troncasse quella relazione con quel giovane giudicato “inadatto” e che invece oggi è felicemente suo marito.
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