ISLAM, LAICITà€ E DEMOCRAZIA PER CAPIRE LE STAGIONI ARABE

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Tunisia, Egitto, Libia – la “primavera araba”, che ora viene chiamata più cautamente “transizione”, ha reso forti dappertutto i partiti islamici. E’ un tradimento della libertà ? Ci sono oggi nel mondo più democrazie ma meno democrazia? Alla quinta edizione degli Istanbul Seminars, lodevolmente organizzati ogni anno all’Università  Bilgi di Istanbul da Reset/Dialogues on civilizations (e aperti da Giancarlo Bosetti), gli eventi della primavera araba hanno quanto meno obbligato tutti i partecipanti a resettarsi dalla teoria alla realtà  politica, e a mettere i teoremi alla prova dei fatti, sforzandosi di ricavarne prospettive e strategie politiche.
Cominciando intanto dalle definizioni. Democrazia o democrazie? Di che cosa si parla nei paesi musulmani quando si parla di democrazia? La libertà  dalla tirannide non è un valore soltanto occidentale. E quando viene conquistata non deve per forza sfociare, per non perdere il proprio valore, in forme di società  che siano fotocopie delle società  occidentali. Una società  libera e autodeterminata è pensabile anche con partiti islamici al governo, è stato detto. Pensabile, beninteso, non garantita. Perfino in Turchia, il paese che a noi occidentali appare come l’esempio più riuscito sotto il profilo del funzionamento dei meccanismi della democrazia, i laici lamentano la crescente pressione sociale che spinge verso una “omogeneizzazione” sul terreno dei princìpi religiosi (permettere l’uso del velo nelle università , proibire l’alcol etc).
Tunisia e Egitto, almeno per il modo in cui è cominciata la rivolta, hanno smentito tutte le interpretazioni “orientaliste” di quelle società , e hanno rivelato una forte domanda di democrazia. Il fatto che poi si siano rafforzati i movimenti islamici ha portato semplicemente alla superficie quello che era stato represso per molto tempo: la coscienza di una identità  musulmana, che secondo buona parte dei tunisini e degli egiziani (e di altri paesi come il Marocco) dovrebbe riflettersi nella costruzione degli ordini politici. E’ stata per così dire una normalizzazione, non uno snaturamento della rivolta. Tanto più che i partiti islamici vengono visti dalla gente semplice come i più capaci di affrontare i problemi della povertà  e delle enormi differenze sociali: sia perché nell’islam la giustizia sociale ha un ruolo preminente, sia perché i leader dei partiti islamici non appartenevano alle élite ultraricche del paese. 
E’ vero che la forza trainante della rivolta erano stati i giovani, che chiedevano democrazia. Senza i laici, per i quali la religione dovrebbe restare un fatto privato e non un affare di Stato, la rivoluzione non sarebbe nemmeno cominciata (almeno in Egitto). Avishai Margalit, professore di filosofia a Princeton e a Gerusalemme, ha visto un parallelo con la rivoluzione russa del ‘17: spontanea e pluralistica in febbraio, sotto il pieno controllo dei bolscevichi in ottobre. Ma è un fatto che né in Tunisia né in Egitto né in Libia i laici sarebbero stati abbastanza forti per fare la rivoluzione. Può dispiacere, ma è così. E per fortuna nessun nuovo Lenin sembra affacciarsi sul fronte islamico.
Previsioni sul futuro nessuno naturalmente poteva farne, ma l’esperimento è senza dubbio appassionante: per la prima volta le società  arabe hanno la possibilità  di fare dei compromessi, dei nuovi patti sociali in cui nessuno detti dispoticamente le regole e tutti siano rappresentati. Ma quanto sul serio prenderanno i governi islamici i diritti dei non musulmani, delle donne, della stampa, la libertà  di opinione? E come si distingue una democrazia da sistemi maggioritari che, per quanto legittimati dai risultati elettorali, possono poi ridurre lo spazio per le minoranze e il pluralismo? Giuliano Amato si è detto contrario all’idea di una moltitudine di interpretazioni diverse della democrazia: alcuni suoi cardini non possono venir limitati.
Le divergenze più profonde si sono riscontrate nelle risposte a un messaggio dell’ex presidente iraniano Mohammad Khatami, letto al convegno dal suo consigliere Khoshroo. Khatami critica l’Occidente per aver trascurato “il sacro” e invita a guardare alla democrazia “non come parte integrante della laicità “. Secolarismo e democrazia non sono la stessa cosa, afferma. Tra i partecipanti alcuni gli hanno dato in qualche modo ragione: sostenendo, con un richiamo a Habermas, la necessità  di adottare un “post-secolarismo”, nel senso di accettare un ruolo positivo della religione nello spazio pubblico. Altri invece, come l’ambasciatore Roberto Toscano, hanno contestato questa impostazione habermasiana, affermando che “secolarismo non equivale a ateismo o a ‘anti-religione’, bensì alla necessità  di garantire quella separazione tra religione e Stato senza la quale il conflitto – e la perdita di democrazia – sarebbero difficilmente evitabili”. Anche gli islamici possono essere democratici, ha concluso Mehmet Pacaci, esperto di esegesi coranica all’Università  di Ankara. Ora avranno l’opportunità  di dimostrarlo.


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