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Accertato che esistono una banalità  del male e una banalità  del bene, non ci resta che ammettere sconsolati la banalità  del tutto. Che cosa ci salva allora? Un afflato di fede, il propulsore della storia, un residuo di dignità ? Mah. Forse è meglio sedersi all’ombra di un tempo gramo, spogliarsi del cinismo come di un’altra ideologia perdente e aspettare un amico. Eccolo lì che avanza: il passo lemme, ferito dall’artrosi, gli occhiali azzurrati, i capelli tinti, la sentenza pronta e accartocciata in tasca. Tony Pagoda è tornato. L’avevamo lasciato alla fine di Hanno tutti ragione, il libro d’esordio di Paolo Sorrentino, precedentemente noto come regista, con una doppia sensazione: ci sarebbe mancato, ma non per sempre. Sono le persone migliori ad andarsene, i personaggi migliori ritornano. In questo caso, portando con sé una variegata compagnia di giro raccolta dietro la copertina a specchio di Tony Pagoda e i suoi amici (Feltrinelli, 156 pagine, 14 euro). 
Ci sono almeno tre buone ragioni per cui non dovrei scrivere di questo libro. I racconti che contiene li ho commissionati a puntate per il mensile GQ. Nei ringraziamenti l’autore mi cita in testa attribuendomi virtù pressoché teologali. Di queste, l’unica reale è l’amicizia nei suoi confronti. Mi son fatto scrupolo, ma alla fine ho pensato: se invece non lo conoscessi, se non per avermi dato dell’infame su una rivista altrui, mi avrebbe appassionato di meno? Sinceramente, no. E quindi. 
A spingermi verso Paolo Sorrentino è stata l’ammirazione per i suoi primi film, a farmi restare al suo fianco ha provveduto l’apparizione del suo alter ego Pagoda. Protagonista del romanzo, svela in questo secondo libro la sua vera funzione. Sorrentino poteva incontrare i suoi “amici” come Sorrentino. Aver mandato agli appuntamenti Pagoda è stato un espediente, più che narrativo, di vita. Un modo per sentirsi libero, scacciare il pudore, attribuire anziché attribuirsi e prendere la giusta distanza da sé, dalle proprie passioni e dai grumi di malinconia che le incrostano. 
Nella scelta degli obiettivi si rivela che, più del binocolo o dell’occhiale, lo strumento di mira è il retrovisore. Carmen Russo, il mago Silvan, Maurizio Costanzo e compagnia: mettili insieme e ti appare un programma televisivo di fine Anni Settanta. Un’età  dell’oro, in cui Pagoda era giovane, Sorrentino bambino, la mamma era “bella, buona, brava” e faceva scherzi micidiali che le lasciavano la tristezza negli occhi, Antonello Venditti aveva già  dato il meglio di sé («fra i nove e i quattordici anni, quando percepiva i genitori come tiranni e la solitudine l’unica amica che era riuscito a trovare»). Ci ho provato, a fargli fare amicizia con individui più contemporanei e, mi si passi l’orrendo termine, postmoderni, ma li ha schifati tutti come deiezioni fuori bersaglio. Strada leggendo ci si accorgerà  che non fa poi questa gran differenza. Ogni incontro, come spesso accade, è un pretesto. La copertina a specchio ci ricorda che guardiamo gli altri per vedere noi stessi, capire, se possibile, qualcosa di questo percorso che, per convenzione, chiamiamo vita. Sulla quale, in volo per New York, Tony Pagoda raggiunge una conclusione senz’appello: «È proprio infame: da bambino ricordi tutto, ma non hai niente da ricordare; da vecchio non ricordi nulla, ma avresti fiumi di cose da far accomodare sul tavolino della nostalgia». Dissemina le pagine di affermazioni icastiche: «Chi non ha avuto una carriera, si attacca all’unica che ha avuto, quella di ragazzo», «C’è poesia, volgarità  e tenerezza dappertutto. Finanche nelle case dei sottosegretari». I lettori potranno, se proprio non resistono, twittare queste perle di saggezza. Personalmente mi asterrei dal riferire a Tony: «Ehi, ti hanno ritwittato», giacchè la sua idiosincrasia alla superfluità  del presente può sfociare in furore. Preferisce accarezzare quel gatto castrato che è il passato, all’apparenza incapace di nuocere ancora. Se lo culla in braccio, con la leggerezza della parola e dell’empatia. Sprezzante delle cose, riguardoso delle persone. Ci vuole talento, ma un talento che ha a che fare con l’arte negletta dell’essere umani, mai troppo umani. Uno trema al pensiero di un racconto da casa di Carmen Russo, Enzo Paolo Turchi e dei loro 28 cani, il preferito dei quali, Energie, «in Spagna è stato su Internet e ha una personalità ….». Perfino l’ironia in certi ambiti è vile. Ma Pagoda si mette lì e guarda, come noi sapevamo fare solo da bambini e ci descrive le cose per quel che sono e manco san più d’essere. Di Carmen dice, mentre la osserva mangiare, che: «Il petto sfiora il piatto coi peperoni». E ne fa una Madonna preraffellita intinta nel sugo. Inviato a Vienna, infilato in un frac, sistemato al cospetto di Ruby Rubacuori e delle altre debuttanti al ballo, anziché il facile soprassalto del moralismo giustizialista lo punge un insetto, il punteruolo rosso che sta compromettendo l’esotismo della bellezza e per estensione della metafora sciupando tutta questa meravigliosa gioventù di membra e di labbra, svenduta per un sogno cialtrone e soprattutto, innegabilmente vecchio. Seduto davanti a Maurizio Costanzo spazza dal tavolo un faldone di pregiudizi e leggende metropolitane con tre righe: «Ove mai fosse vero che ha frequentato Gelli, si deve anche dire, per amore della verità , che ha frequentato Balzac. E tra i due, credetemi, è meglio concentrarsi su quest’ultimo». 
Pagoda si concentra sui particolari delle sue frequentazioni, scava dentro i loro sguardi a cercare quello dei padri che non abbiamo avuto e non abbiamo saputo essere perché non siamo cresciuti abbastanza, trafitto dal sospetto che nessuno cresca mai abbastanza. Implora i suoi amici di tenerlo con sé, in quel mondo rutilante di magie e fesserie, dove il pennacchio scuro di Silvan è garanzia d’immortalità . Suo malgrado, si congeda per fare, con lo pseudonimo ricevuto all’anagrafe, cose meno serie. E adesso, che ne sarà  di lui? Tornerà  ancora? In testa e in coda al libro giacciono due possibili risposte. La prefazione a cura dell’ex cognato lascia intravedere un possibile spin-off, un personaggio creato dal personaggio che ne raccolga il testimone, aumentandone la carica. L’ultimo racconto prelude invece a una spogliazione. Evocando lo scherzo materno, Pagoda lascia cadere la maschera e gli aggettivi, le tirate e gli aforismi. Depone il barocco e gli occhiali. L’effetto è disarmante, ti mette a sedere. A raccontare non è il regista, non è lo scrittore: è Paolo Sorrentino.


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