“Qui ci facciamo i fatti nostri” nella periferia di Milano che si è arresa all’omertà 

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«Sa, qui bisogna giocare d’anticipo» risponde la donna. In che senso, scusi? «Prima che succeda a noi qualche cosa come è successo ad altri… È sicuro che nessuno sa che sta parlando con me? Come ha avuto il numero?».
Piazzetta Caccia Dominioni è una piccola oasi tra traffico e cemento. «Sembra di stare in campagna», dice una ragazza filippina, dotata di grande fantasia. Tra le case popolari c’è un grande rettangolo verde, alberato, gravido di moscerini. Rettangolari anche i caseggiati marroni, lunghi e bassi, pochi piani di bandiere dell’Inter e calzini corti, paraboliche sporche e reggiseni bianchi. Non arriva il frastuono del traffico di via degli Antonini, appena a cento metri. Ma non è campagna. Siamo a Milano. Giù di là , ecco il quartiere Stadera, spaccio alla grande, con i fischi delle sentinelle all’arrivo di ogni faccia sconosciuta. In fondo dall’altra parte, il Corvetto, con le neo-bande multietniche. «Beh – continua la signora che non apre la porta – glielo dico chiaro: noi se siamo obbligati andiamo in aula. Se no, non andiamo. Ma non è che abbiamo paura, è che vuoi vivere senza problemi, ed è meglio farsi i fatti propri». 
«Farsi i fatti propri» è la frase che risuona spesso, da queste parti, in questa “campagna” metropolitana, dove ci si conosce tutti da 65 anni, dove il 70 per cento degli inquilini è anziana, dove custodire i segreti è difficile: «Lo sai o non lo sai chi è il Ricotti? È un altro testimone, era affacciato là », spiega un ragazzo indicando una finestra: «à‰ andato abbastanza fuori di testa per l’ansia, e ha mandato anche il certificato ai giudici. Si dice che si presenterà , che andrà  in tribunale con il burqa, coperto da un velo nero».
«Abbastanza fuori per l’ansia» sono in molti, qui dove la calma apparente, l’anonimato, il tran tran sono stati distrutti quasi due anni fa. È successo a breve distanza dall’erba rasata dove adesso un dogo pascola sereno. Là  dove c’è un misero vasetto di fiori anche blu. Un tassista è morto per colpa di un cane senza guinzaglio. L’ha schiacciato senza volerlo, andando piano, e ben lontano dalle strisce. Era sceso dall’auto bianca, aveva persino proposto di pagare il veterinario, ma era stato offeso, circondato, pestato, aveva sbattuto la testa sul marciapiede. Era una domenica d’autunno, ore 12.30. Un mese di coma, infine la morte l’11 novembre 2010. 
Il tassista si chiamava Luca Massari e la tv s’era impadronita della storia. Un fotografo preso a mazzate. Un’auto incendiata, quella di una testimone, insignita dell’Ambrogino d’oro dall’ex sindaco Letizia Moratti. Altri incendi, taciuti, non denunciati, nelle settimane scorse: uno alla ruota del motorino del figlio di una teste. Quando le telecamere sono andate via, i testimoni si sono ritrovati additati per strada. Adesso, che il processo c’è, gli stessi «non ricordano». 
«Non è Corleone, non c’è la paura della mafia», ripete «il Lonati», milanesone, anima del comitato di quartiere. Ma allora che cos’è che capita? Nell’oasi alcune parole risuonano come una cantilena: «È una schifezza, figurati se ho paura a dirlo, hanno ammazzato un povero cristo e devono andare dentro, chiaro? Ma è meglio farsi i cazzi propri, la società  ti porta a questo», è la spiegazione di un signore dalle mani sporche di calcina. Ma perché è «meglio»? 
Morris Ciavarella, uno degli assassini, è stato appena condannato a sedici anni anche in appello (rito abbreviato e sconto). «Un balordo di periferia, né più né meno», dicono di lui. Gli altri due accusati, i fratelli Citterio, si dichiarano innocenti. Hanno chiesto il rito ordinario e sono uno in carcere, Pietro, e la sorella Stefania è a casa, ai domiciliari. Ma questi giovani, trentenni, disoccupati, senza curriculum malavitosi, hanno la forza di intimidire interi caseggiati? 
«Oggi – dice una magra signora, uscendo dal cancello dove vivono i Citterio del processo – è difficile vivere bene, ma non solo qui, dovunque. Bisogna stare molto attenti a come si parla, a come si saluta, a come si cammina». «Abito qui, ma non qua», aggiunge un’altra, interessata solo a filar via. Dietro la porta chiusa, l’imputata Stefania Citterio ribatte: «L’avvocato m’ha detto di non parlare, andatevene. Ho mandato una lettera ai familiari di Luca Massari, lei non lo sa, ma mio padre ci ha insegnato a vivere onestamente, non siamo mafiosi. Ho pianto, mi sono arrabbiata per il cagnolino, ma non pensavo che potesse morire un uomo, ma tanto chi mi crede?».
Un giovane muscoloso scende dall’auto e ci viene incontro: «Io sono quello che ha tenuto la mano di Massari, e ho chiamato l’autoambulanza. Se le pattuglie della polizia erano qui in due minuti, gli infermieri ci hanno messo 45 minuti, pazzesco. Adesso sono accusato di falsa testimonianza». Può aiutarci lui a capire? Proviamo: «Quel giorno – racconta – ho tenuto ferme Stefania ed Elisabetta Citterio, che erano in lacrime per il cane, e il fratello Piero non c’era. È stato il solo Ciavarella a pestare. È arrivato, è sceso dal motorino, ha messo il cavalletto e ha pestato. Questo lo diciamo io e altri testimoni. So che altri testimoni ancora hanno parlato di un gruppo che ha aggredito il tassista, che c’erano i Citterio. Sì, al processo hanno cambiato versione. Ho sentito parlare di paura, ma paura di che cosa, di chi? Non lo so, so solo che se d’ora in poi vedo uno ferito, giro la testa e lo lascio là , perché è meglio farsi i fatti propri». Vivi e lascia morire, questa è Milano?


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