QUEL DOS PASSOS SOVVERSIVO CENSURATO DAL FASCISMO

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Sarà  stato quando John Dos Passos fa dire a Marco, un cameriere italiano a New York (certo, Manhattan Transfer è un’unica, tumultuosa sinfonia per New York!) che racconta di esser stato buttato fuori dal lavoro con un «Fila, sporco italiano» da «quel vecchio cammello del proprietario»: il suo commento è un rabbioso «Dio è dalla loro parte, come i poliziotti… Quando arriverà  il giorno lo ammazzeremo Dio… Io sono un anarchico», e poi «Coraggio, che il nostro giorno sta per arrivare, il giorno del sangue». Oppure la censura si è messa in allerta quando l’immigrato ricorda «un compagno di Capua» e le sue visioni del futuro dopo la rivoluzione, «il giorno in cui i lavoratori si libereranno dalla schiavitù»: «camminerai per strada e sarà  la polizia a scappare, entrerai in banca e sarà  piena di soldi lì pronti da prendere… Ci stiamo preparando in tutto il mondo…», nessuno vivrà  «del lavoro di un altro uomo», «anche in Cina ci sono dei compagni… La Comune di Parigi è stata solo l’inizio». 
Insomma qualcuno a Roma deve non aver visto di buon occhio quelle parole sovversive (tra l’altro c’erano anche parecchie bestemmie) in bocca a un anarchico italiano dipinto come un personaggio positivo. Era il 1932, anno della pubblicazione in Italia di Manhattan Transfer con il titolo Nuova York, una delle opere capitali del XX secolo: o gli impiegati del Duce addetti alla revisione e ai tagli dei testi si sono mobilitati rileggendo quei discorsi rivoluzionari pronunciati da un connazionale, o è stata la stessa traduttrice (Alessandra Scalero) ad autocensurarsi per non essere messa in difficoltà . 
Di fatto tutta quella scena (circa quattro pagine) era scomparsa dalle versioni in italiano. Oggi però il romanzo dello scrittore americano viene ripubblicato in Italia da Dalai editore per la prima volta nella sua versione integrale (a cura di Stefano Travagli, pagg. 391, euro 18). La disapprovazione, tra l’altro, era caduta anche sulla fine del primo capitolo della Parte Terza, che vedeva degli anarchici e dei comunisti allontanati dagli Stati Uniti per attività  antiamericana mentre venivano trasportati su un ferry-boat verso l’espulsione e cantavano l’Internazionale, una scena che Dos Passos, (1896-1970), dipinge quasi con commozione, ecco qui: «I gabbiani volteggiavano stridendo. Una scatola di latta ballava sulle piccole onde di vetro smerigliato. L’eco di un canto giungeva dal traghetto che scivolando sull’acqua si faceva sempre più piccolo. C’est la lutte finale»… «a un tratto una voce di fanciulla gridò: “In piedi dannati della terra”». Anche qui qualche sforbiciata era caduta. In modo più leggero, però, sfumando qua e là .
Dos Passos scrisse Manhattan Transfer nel 1925, erano i suoi anni più radicali; poi tutto il suo ardore sovversivo, anche dopo un lungo viaggio in Unione Sovietica, passò, e man mano lo scrittore approdò a convinzioni opposte (sostenne il maccartismo ad esempio). Ma, nonostante i tagli di regime – non abnormi comunque – , rimane la carica rivoluzionaria di questo libro, a cui seguì poi, ereditandone molte delle straordinarie tecniche innovative, la nota trilogia americana (42° parallelo, 1919, Un mucchio di quattrini). Per il Novecento fu Manhattan Transfer però il testo fondamentale per capire cosa significa scrivere di una città  e dei suoi abitanti: attori affacciati come in un caleidoscopio multiplo nel fluire dei primi capitoli per poi sostanziarsi nelle storie di oltre trenta personaggi principali che appaiono e scompaiono, per ricomparire spesso in maniera sorprendente nel corso della narrazione. Risultato, un romanzo che rappresentò uno dei migliori frutti del difficile matrimonio tra sperimentazione modernista (la lingua, la struttura, il “montaggio” quasi filmico – fu lui stesso a dire di aver imparato molto dalle pellicole di Eisenstein) e la felicità  narrativa di ascendenza ottocentesca. E noi adesso siamo contenti di poterlo leggere così come lo scrittore della generazione perduta lo concepì.


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