La speculazione maledetta della trasformazione

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I filosofi pongono troppo spesso le domande meno interessanti. Continuano a chiedersi, obbedendo alla tradizione platonica, che cosa abbiamo davanti o perché ci sia proprio quello e non altro. Rocco Ronchi, nel suo Come fare. Per una resistenza filosofica (Feltrinelli, pp. 190, euro 20) riporta al centro, invece, l’interrogazione, spesso considerata filosoficamente «minore», sul come: che è quella che ci viene alle labbra quando siamo già  implicati nell’azione e non sappiamo bene come fare, quando parliamo e ci troviamo all’improvviso davanti al balbettare del nostro linguaggio. La domanda sul come, ci ricorda Ronchi, nasce non quando assumiamo la postura metafisica di chi interroga il mondo dopo essersi piazzato alla giusta distanza, di chi lo osserva dopo aver conquistato un punto di vista trascendentale, ma quando siamo già  coinvolti, sballottati nel mondo. 
Porre le domande sul come fare, come ricordare, come costruirsi un corpo, piuttosto che le tradizionali sull’essenza del fare, della memoria e del corpo, è, per Ronchi, una questione strettamente politica. E infatti tutti i saggi che compongono questo libro sono mossi da un’intenzione politica esplicita. Passare dal cosa al come significa per Ronchi riuscire a porre il problema della critica e della resistenza qui e ora. L’interrogazione trascendentale è, infatti, quella che fonda la critica modernamente intesa: l’attività  che rischiara, illuministicamente, l’orizzonte di senso entro cui si danno le cose. Il grande merito del testo di Ronchi è di prendere sul serio l’eliminazione della distanza critica, come si è data nel progetto moderno: né nostalgie per qualsiasi riedificazione di un punto di vista trascendentale, ma neppure l’accettazione di un pensiero ridotto a semplice risorsa da mobilitare perennemente in una direzione obbligata. L’esaurimento del possibile, l’esaurimento di ogni possibile critica, apre quello spazio che Gilles Deleuze aveva colto precisamente come lo spazio dell’esausto: lo spazio di colui che non la smette mai di finire. In termini politici, chi vive l’esaurirsi del progetto moderno, come può farla finita con il finire, vivere la propria discendenza da un Padre morto, senza per questo farsi fagocitare da un pensiero che intende se stesso e l’intelligenza collettiva come un capitale umano da mettere a frutto secondo la ratio economica del neoliberalismo? 
In nome dell’assoluto
L’esperimento di pensiero di Ronchi è quello di risvegliare la passione più antica del discorso dei filosofi: quella per l’Assoluto. La filosofia guarda, per propria mania, sempre al di là  della relazione, del discorso, delle prassi comunicative: guarda, come insegna quel luogo inaggirabile per i filosofi che è il dialogo platonico del Parmenide, all’Uno che non si fa prendere dal discorrere dei molti, quell’Uno «tutto solo» che non si lascia imprigionare dalla società  della comunicazione dispiegata e del «principio di prestazione». Il saggismo di Ronchi insegue appunto questo pensiero dell’Assoluto, che libera la filosofia dall’essere sempre e solo «affermazione del principio universale della correlazione»: la filosofia come l’esercizio – audacemente dissennato – di «rapportarsi all’Uno disgiunto dall’Altro, all’Uno assolto dalla relazione».
Le tracce di questo Assoluto, però, non vanno cercate nei cieli del sapere dei saggi, nelle trascendenze della metafisica. L’Assoluto, al quale il pensiero di Ronchi dà  la caccia, va cercato piuttosto in zone «maledette», sporche, disumane. Nei sei saggi che compongono il libro, questo Assoluto assume nomi diversi, che si collocano però tutti in una genealogia filosofica precisa: sono le tracce di una filosofia dell’immanenza, di un pensiero in cerca di quel margine dove la «struttura» (il «principio di correlazione») viene portata a girare su se stessa e infine ad esplodere, dove si apre un passaggio per un «Grande Fuori», fuori dal «chiuso claustrofobico della coscienza», fuori dal linguaggio come orizzonte ultimo e intrascendibile. Niente trascendenza, quindi, ma un assoluto radicato nell’immanenza della vita, «forza materiale, natura naturante, pressione esercitata dal basso». Un programma filosofico-speculativo per un materialismo assoluto. I nomi, dicevamo: un Lacan, che non è quello «urbanizzato» letto come traduttore dell’inconscio in linguaggio e neppure quello «etico» della contrapposizione tra un godimento che si autoconsuma e un desiderio aperto e consapevole, ma piuttosto quello che scopre il reale al di là  del linguaggio, il «godimento maligno» e la pulsione acefala di morte; il Bataille della Notion de dépense e indagatore di quella «parte maledetta», dell’economia della perdita contro l’appropriazione borghese; Deleuze e Guattari che sperimentano le strade per farsi il corpo senza organi, movimenti di de-soggettivazioni che mirano a quanto vi è di più resistente nella pura immanenza della vita. E ancor prima, a fare da sfondo teorico forte a tutta la ricerca di Ronchi, il Bergson di Materia e Memoria e il Sartre de La trascendenza dell’Ego, riletti con grande intelligenza sullo sfondo comune della ricerca di una coscienza fuori dalle trappole trascendentali dell’autocoscienza.
La resistenza filosofica si radica quindi su questo terreno, forte e ruvido, della vita de-soggettivizzata, di un divenire positivo e assoluto, contemporaneamente senza mancanza e senza soggetto, della carne come residuo di ogni possibile incorporazione. Una zona filosoficamente e politicamente densa di pericoli e di ambivalenze, di cui Ronchi – e prima ancora i suoi «autori» – sono ben consapevoli. Questa resistenza – nel nome del prima della forma, del prima della storia, del prima del linguaggio – ha però un evidente limite politico: non può che essere esclusivamente una resistenza speculativa. 
Il nodo della soggettività 
Questo gesto di resistenza «filosofica» appare, infatti, necessariamente muto sulla questione, davvero non eludibile, delle nuove soggettività  e delle soggettività  politiche in particolare. Ora, mentre Ronchi guarda a tutti quegli esperimenti di pensiero che hanno squarciato la struttura, che hanno rottoli dominio del signficante, nel nome di un divenire assoluto senza soggetto, la storia successiva del post-strutturalismo ha significativamente incrociato di nuovo la questione della soggettività . Si può dire anzi che gran parte del post-strutturalismo abbia proprio tentato di reinnestare la questione della produzione di soggettività  su quel piano di immanenza: si pensi, a proposito di resistenza, a Foucault, sempre più deciso, ed assolutamente esplicito negli ultimi corsi, a tradurre il tema della resistenza da resistenza «esterna» alle relazioni di potere a resistenza interna – e capace di rilanciare in positivo il discorso sulla soggettività  – entro quelle relazioni. Le pratiche teoriche e le concretissime lotte dal Sessantotto in avanti, hanno trasformato così quella «resistenza filosofica» che emerse dalla crisi strutturalista in una prassi produttiva, che ora può nuovamente definirsi come prassi storica e umana: il «fuori» senza soggetto dei coraggiosi filosofi della vita oggi si mostra così ricco di dispositivi produttivi, che oramai possiamo, senza paura di ricadere nei trascendentali della storia o della coscienza, confrontarci con la concretezza delle soggettività  e radicare in esse prassi teoriche costituenti e produttive.


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