Lo sguardo corto della politica

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e non gli effetti della stessa crisi, rovinosa per la vita di tante persone. È come se le élite politiche non avessero la percezione di cosa rischino gli Stati e i popoli, in termini di progresso economico e di coesione sociale. Così può capitare un paradosso: che siano proprio le tecnocrazie, accusate di snaturarle o addirittura “sovvertirle”, a dimostrarsi più sensibili ai destini delle democrazie. Di fronte al pericolo di quella che Paul Krugman chiama «l’ellenizzazione del discorso europeo», e alla possibilità  che sull’agorà  di Atene bruci anche la moneta unica, tocca alla “triade tecnocratica” Monti-Draghi-Visco chiedere alla politica di assumersi le sue responsabilità . Le parole di Mario Monti, che ricorda la minaccia di un «contagio finanziario» tuttora incombente sui debiti sovrani dell’Eurozona, pesano come un macigno sulle spalle di Angela Merkel. Tocca a lei «riflettere profondamente» sulla necessità  di accelerare gli sforzi per la crescita, senza i quali verrà  meno il sostegno pubblico alle politiche di rigore. Tocca alla Cancelliera di Ferro, indipendentemente da chi avrà  la maggioranza al Reichstag nel 2013, far ragionare i suoi concittadini su cosa ha significato l’euro. Per una Ue che dal 2008 ha bruciato 4 milioni di posti di lavoro all’anno, c’è una Germania che non è mai stata così ricca: secondo i dati Bundesbank, nel 2011 il patrimonio finanziario dei tedeschi ha raggiunto la cifra record di 4.715 miliardi. Per i figli della Repubblica di Weimar il Deutsche Mark è una suggestione. Ma per i nipoti l’euro è un affarone. Sono davvero in condizione di rinunciarci? 
Le parole di Mario Draghi al Parlamento di Strasburgo pesano come pietre sulla coscienza di un establishment accidioso e indeciso a tutto. «Chiedetevi come sarà  l’Europa tra dieci anni, quale tipo di visione vogliamo avere e quali saranno le tappe per arrivarci: prima si definirà  questo cammino, meglio sarà  per tutti». L’Europa di oggi, irresoluta e irresponsabile, produce insieme un’economia della depressione e una politica dell’insicurezza. Senza una strategia di lungo respiro, i governanti dalla veduta corta si nutrono di pura tattica, battendo il tempo dell’Europa su quello delle rispettive scadenze elettorali. Non sono capaci di rispondere alla domanda di futuro e di crescita, di lavoro e di equità  che promana dai popoli. Ma per scaricarne le tensioni, sono bravissimi a indicare un “pessimo esempio” (la povera Grecia) e un ottimo capro espiatorio (i ricchi banchieri). Non che i signori del credito non abbiano la loro buona dose di colpe. Ma è sempre troppo facile pretendere dai tecnici quello che i politici non sanno o non vogliono dare. Nella “disputa” in corso, nonostante tutto, oggi hanno più ragione i primi dei secondi. Ha più ragione Draghi, che dopo aver garantito 500 miliardi di acquisti di titoli di Stato con il “Securities Markets Programme” e altri 1.000 miliardi di liquidità  immessa sul mercato con i due “Ltro” di dicembre e febbraio, ora avverte «non c’è più tempo da perdere, non possiamo colmare la mancanza di azione sul fronte dei conti pubblici, non è il nostro mandato né il nostro dovere, la Banca centrale europea non può riempire il vuoto lasciato dalle mancanze della governance europea». 
Le parole pronunciate da Ignazio Visco, per il suo esordio nel salone delle assemblee di Palazzo Koch, non sono da meno: «Inerzia politica, inosservanza delle regole e scelte economiche errate rischiano oggi di mettere a repentaglio l’intera costruzione… I processi decisionali, condizionati dal metodo intergovernativo e dal principio dell’unanimità , sono ancora lenti e farraginosi». Serve un’Europa che funzioni come “federazione di Stati”. Servono processi decisionali rapidi, risorse pubbliche comuni e regole davvero condivise. Ma sono compiti che «esorbitano dalla sfera d’azione del sistema delle banche centrali, e investono responsabilità  politiche, nazionali e comunitarie». E sono compiti che rimandano a una saggia riflessione di Tommaso Padoa-Schioppa, giustamente rievocata dal governatore: «L’insidia è di credere che l’euro sia l’ultimo passo, che l’Europa unita sia ormai cosa fatta». Più che un monito, una profezia. L’euro andrebbe difeso, dall’opportunismo degli scettici e dal cinismo dei mercati. Ma è proprio questo che manca. Come dice Visco, mancano «manifestazioni convergenti della volontà  irremovibile di preservare la moneta unica». 
La “piccola Italia”, in tutto questo, vive un dramma nel dramma. E anche qui (soprattutto qui, viene da dire) servirebbe una visione all’altezza dello «stato d’eccezione» in cui siamo precipitati. Ma proprio qui, nel vuoto e nel silenzio assordante di una politica frammentata e delegittimata, la “supplenza” dei tecnici mostra i suoi limiti. Forte della debolezza di una maggioranza tripartita sempre più confusa e disarticolata, Monti fa quello che può, anche se potrebbe fare di più. E il governatore, che di questo governo è in definitiva un «azionista di riferimento», dice un po’ meno di quel che dovrebbe. È verissimo che l’esecutivo ha riportato il bilancio pubblico «su una dinamica sostenibile e credibile». È un po’ meno vero che ha «rianimato la capacità  di crescita dell’economia». È verissimo che la pressione fiscale è «a livelli ormai non compatibili con una crescita sostenuta». È un po’ meno vero che si è aperto il “vasto cantiere” delle riforme strutturali. 
Dopo la cocente delusione per il modesto debutto del nuovo presidente di Confindustria Squinzi, da Visco era lecito aspettarsi proprio una maggiore “visione” sul futuro del Paese, anche al prezzo di una minore “condivisione” sulle scelte compiute dal governo, e magari anche dal sistema bancario (la denuncia della moltiplicazione delle poltrone nei board poteva essere molto più severa, se è vero che i primi 10 gruppi bancari contano ben 1.136 cariche; la rampogna sul contenimento delle remunerazioni degli amministratori doveva essere molto più dura, se è vero che un “ceo” di fresca nomina nel 2011 ha incassato 66 mila euro per aver lavorato una sola settimana). Ma è evidente che, con i tecnici a Palazzo Chigi, cambia anche il ruolo di Palazzo Koch. È difficile fare i “supplenti dei supplenti”. Dal dopoguerra, la stella della più prestigiosa e autorevole istituzione economica nazionale ha brillato ancora di più quando al governo c’era un ceto politico inetto e incapace di far uscire l’Italia dalla lunga notte della Repubblica. Oggi è diverso. Quel ceto politico sopravvive in Parlamento, ma è sempre più screditato nel Paese e soprattutto non abita più nella “stanza dei bottoni”. Dal Cavaliere al Professore: è già  un enorme passo avanti, anche se la notte non è ancora finita.


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