Pietro Mennea “Così si vince”

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pietro Paolo corre sempre contro. Anche a sessant’anni. «Quello della Silicon Valley, quello che ha detto che bisogna essere affamati e folli, mi fa ridere. Noi non avevamo niente e volevamo tutto. Eravamo cinque figli, quattro maschi e una femmina. Mio padre Salvatore era sarto, mia madre Vincenzina lo aiutava, a me toccavano i lavori più umili: fare i piatti, pulire la cucina, lavare i vetri. Avevo tre anni quando mamma mi mandò a comprare un bottiglione di varechina che mi si aprì nel tragitto, porto ancora i segni sulle mani. Papà  veniva da una famiglia di undici figli, due si erano fatte suore, non c’era da mangiare a casa. Quando ho iniziato a correre i calzoncini me li cuciva lui. Oggi non mi entrano più, nemmeno al braccio, ma li tengo ancora. Le prime scarpe da gara le ho prese più grandi, dovevo ancora crescere, sarebbero durate. La tv non la tenevamo, si andava al circolo degli anziani, era su un baldacchino, pagavamo 50 lire per vederla. Ce l’avevo la rabbia dentro, eccome». E Steve Jobs è servito. 
Pietro Paolo Mennea da Barletta è così: regge i confronti. È l’ultimo recordman mondiale bianco dello sprint, l’ultimo oro azzurro olimpico della velocità , e attuale primatista europeo dei 200. Il suo 19″72 non ha i capelli bianchi: dura dal 1979, al nono posto tra le migliori prestazioni di sempre. 
Da garzone di bottega Pietro si dimentica le consegne. «Papà  alla domenica mi mandava in bicicletta a portare i vestiti, anche al questore Buttiglione, io appoggiavo la bici e andavo a giocare a pallone, stavo in porta, ma i clienti protestavano e all’una tra i rimproveri ero intercettato. Correvamo in piazza o attorno alla cattedrale, mi feci la fama lì. A quattordici anni divenni collaudatore di macchine veloci. Chi comprava una Porsche o un’Alfa Romeo veniva a suonarmi a casa alle undici di sera. Dormivo nello stesso letto, che si tirava giù, con due fratelli, cercare di non svegliarli era dura. L’appuntamento era in via Pier delle Vigne o in viale Giannone, sui 50 metri, un rettilineo leggermente in discesa. Il premio: 500 lire. La macchina partiva a motore spento oppure io avevo diritto ad un vantaggio di 50 metri. Con quei soldi ci compravo il panino per la scuola, ci pagavo il cinema e mi divertivo la domenica. Ma la polizia venne a sapere delle sfide e io scappai a casa».
Le prime gare provinciali con la maglia dell’Avis. «Le prima corse le ho fatte contro Pallamolla, mio compagno di classe all’istituto tecnico. Era imbattibile, vinceva sempre lui, ma un giorno tra le urla degli altri l’ho lasciato indietro. Ha cambiato nome, ora si chiama Palmi. Io a quei tempi prima di gareggiare mangiavo tre piatti di pasta al forno. La mia crescita sportiva è stata lenta e costante, ma da ragazzo del sud nel ’72 sono dovuto emigrare. Al centro federale di Formia: 350 giorni di allenamento all’anno. Stavo lì pure a Natale e Pasqua. Da solo. Vent’anni ad acqua minerale, e nemmeno gassata, il professor Vittori non voleva. Il complimento più bello me lo hanno fatto i vecchi custodi, la famiglia Ottaviani, che ha dichiarato: ce n’era solo uno che in tuta entrava al campo di mattina e usciva di sera. Nel ’71 ai campionati europei gareggiai per la prima volta contro Borzov, atleta dell’ Urss, dio della velocità . Avevo 19 anni, lo guardai negli occhi, e mi chiesi: ma io uno così quando lo batto? La stagione seguente sui 100 gli restai incollato, persi, ma al fotofinish, 10″ entrambi. Continuavo ad imparare. E a stare nella realtà . Nel ’73 con i primi guadagni mi comprai una Lancia Fulvia Montecarlo da rally, ma non ci dormivo la notte per la paura di aver fatto il passo troppo lungo. E la rivendetti». 
Di Mennea si diceva: magro, storto, contorto. Ma duraturo: 5 Olimpiadi, dal ’72 all’88. «A Monaco sui 200 arrivai terzo. Andai a festeggiare il bronzo in un ristorante, tornai, mi misi a letto, avevo una singola. La nostra palazzina era davanti a quella di Israele, ma un po’ più in alto. Quando mi svegliai il 5 settembre mattina trovai dei tiratori sui tetti e una situazione pazzesca, ma io quella notte non avevo sentito niente. La polizia tedesca, senza divisa, sottovalutò gli allarmi, era mal preparata e poco equipaggiata. E allo sport allora interessava solo spostare i terroristi fuori dal villaggio, per poter continuare i Giochi: ammazzatevi, ma lasciateci continuare le gare. Ho scritto a Rogge, presidente del Cio, perché a Londra, a 40 anni dalla strage, si ricordino gli atleti morti con un minuto di silenzio. Anche se il Cio ha già  detto che non intende farlo».
Messico e nuvole nel ’79. E record a Città  del Messico. Mennea aveva 27 anni, nei 200 metri era in corsia 4, la pista era consumata. Alle Universiadi nei giorni precedenti era comparsa la scritta Petro Menea, il suo nome storpiato, senza i e n, errata anche la nazionalità , francese. «Ero come un viaggiatore che stava per partire. Ogni corsa è un viaggio. Mi chiedevo: ho preso tutto? Ero alla ricerca di un tempo, troppe volte perduto. Pensai fosse la volta buona. Remai un po’ in curva, controllai la sbandata all’entrata del rettilineo, non smisi di spingere, stavo andando a trentasei chilometri all’ora con le mie gambe. Corsi i primi cento in 10”34 e i secondi in 9”38. Arrivai con sei metri di vantaggio. Il pubblico urlò, ma io non ero sicuro. Non c’erano tabelloni elettrici, allora. Mi girai. l’unico cronometro era alla partenza. Guardai le cifre, forse avevano sbagliato anno? Eravamo nel ’79 non nel ’72, mi vennero tutti addosso, ci fu una grande confusione, non riuscivo più a respirare».
L’Italia scoprì un altro Coppi. Veniva dal meridione, faticava come una bestia, ma in pista era resistente. Quel 19″72 aveva dentro scienza e dedizione. «Nessuno mi dava credito, quel primato sembrava destinato a cadere in fretta. È durato 17 anni. Dal ’79 al ’96. Al 19″66 di Michael Johnson. Ci credo nei numeri: corsi sulla stessa pista dove Tommie Smith nel ’68 aveva stabilito il mondiale con 19”83. Undici stagioni prima. E migliorai quel tempo di 11 centesimi. Ero in forma, affrontavo tutti, battevo gli americani, che fisicamente erano il doppio di me. A Viareggio sui 200 Williams mi passò: avevo le sue ginocchia all’altezza del mio mento. In California incontrai Muhammad Ali che per me è sempre Cassius Clay. Mi presentarono come l’uomo più veloce del mondo. Lui mi squadrò sorpreso: “Ma tu sei bianco”. Sì, ma sono nero dentro. Sono stato l’ultimo a vincere una gara di velocità , a parte il greco Kenteris, poi rivelatosi drogato. Cos’è siamo diventati tutti brocchi? No, ma non c’è più cultura sportiva, c’è il mito del successo, non quello di farsi strada nella vita. Perché meravigliarsi delle scommesse? Se non si studia, se non si hanno interessi, non c’è crescita della persona. Uno sportivo non deve essere Einstein, ma un minimo ci devi provare a darti degli strumenti e non solo a gonfiare il portafoglio». 
A Mosca nell’80 l’oro dei 200 metri. La sua faccia scavata, la rimonta quando tutto sembrava perduto, lo spasmo finale. Un made in Italy che si affermava anche nello sport. «Ma nei cento non andai oltre la semifinale, dove mi qualificai precedendo di un centesimo Crawford che dalla rabbia buttò giù una porta. Anche io ero giù e mi isolai. Venne a trovarmi Borzov, ormai ex, non avevo tanta voglia di fare colazione con l’avversario di una vita. Mi regalò l’orsetto Misha e non la fece lunga: ti ho visto spento, senza scintilla, guardati dentro e torna a mordere la pista. In finale mi confinarono in ottava corsia, non ero contento, non potevo controllare gli avversari. All’uscita della curva ero penultimo, Wells indemoniato era tre metri avanti. Penso: non avrò altre occasioni. Dodici anni di lavoro e di dolore per niente. Allora riparto, risento tutto, rientro in gara, recupero, vinco, alzo le braccia e il ditino. Per quell’oro guadagnai un premio da otto milioni di lire e mi comprai sei poltrone Frau. Al ritorno il presidente Pertini mi abbracciò con molto affetto. Tra noi c’era un buon rapporto. Mi invitò a colazione al Quirinale, anche il giorno prima del suo addio. Era triste, mi commosse. Gli domandai cosa avrebbe fatto. “Tornerò a casa”. Chiesi: sua moglie l’aspetta? “Lo spero”, rispose». Le fatiche di Mennea sono state codificate. «Convegno in Germania sulla velocità . Metà  anni Ottanta. Parlo del mio training: 25 volte i 60 metri, 10 volte i 150 metri. Gli altri tecnici sbigottiti: ma se i nostri atleti al massimo fanno 6 volte i 150. E lì che ho capito che il doping aveva vinto: come facevano ad allenarsi tre volte meno di me e ad ottenere risultati? Quando Vittori mostrava nei convegni il programma di lavoro gli chiedevano: scusi, chi ha fatto queste cose è poi morto? A Formia ci costruivamo da soli gli attrezzi, anche in quello siamo stati artigiani. E sono tornato a sfidare i motori, come da ragazzo. Dall’auto siamo passati alla Vespa. Solo che Vittori a volte non riusciva a cambiare le marce in fretta, allora vincevo io. Avrei potuto ribattere il mio record dopo Mosca, valevo 19″60, me lo confermò lui, cronometro alla mano, ma credeva che ne sarei stato troppo appagato».
Il dottor Mennea ha cinque lauree: Isef, scienze motorie, giurisprudenza, scienze politiche, lettere. È avvocato, commercialista, revisore contabile, agente di calciatori, giornalista pubblicista, insegnante universitario, è stato deputato al parlamento europeo (’99-2004). Ha cercato altra adrenalina. È appena uscita una sua biografia per Limina firmata con Daniele Menarini, La corsa non finisce mai, lui stesso sta scrivendo un libro su Bolt. «Anche per me ad un certo punto è stato difficile guardarsi allo specchio e decidere: chi vuoi essere? Forse potevo vivere di rendita, invece mi sono rimesso ai blocchi per altre partenze. Non ci sarà  più un record come il mio, non in Italia, e non perché non possano nascere campioni. Ma oggi c’è una società  e una morale diversa, che rifiuta tutto quello che io ho rappresentato. Io allenavo la fatica con l’allenamento».
La moglie Manuela Olivieri l’ha conosciuta ad una festa nel ’92. Lei non sapeva chi fosse Mennea. E al primo appuntamento pensò che il campione si sarebbe presentato con un macchinone. «Arrivai con una Panda Young 750, bianca con i bordini azzurri. Quando corriamo, è più in forma di me, e mi lascia indietro. Ogni tanto c’è qualcuno nel parco che mi chiede: e tu che fai? Vorrei avere abbastanza fiato per rispondere: ho già  fatto. 5482 giorni di allenamento, 528 gare, un oro e due bronzi olimpici, più il resto che è tanto. A 60 anni non ho rimpianti Rifarei tutto, anzi di più. E mi allenerei otto ore al giorno. La fatica non è mai sprecata. Soffri, ma sogni».


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