“Dai fast-food alla televisione tutto è iniziato negli anni ’80”

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La pubblicità  ha un cuore di panna, come quello di una celebre campagna di gelati a base di estate, vaniglia e amore. E non è così cattiva come la si dipinge, soprattutto quando a parlarne è chi la produce: “Semmai funziona come una spugna che assorbe quello che sta già  accadendo intorno”. A ridistribuire le parti tra vittime e colpevoli è Anna Innamorati, decana dei pubblicitari italiani (la campagna dei gelati era sua, per McCann Erikson).
Quando è cominciato il “corteggiamento” diretto dei bambini come possibili consumatori in Italia?
«Verso la fine degli anni Ottanta, col moltiplicarsi dei canali televisivi e dei media, con lo sbarco dei primi fast food e delle prime linee di vestiti per bambini firmati dalle grandi catene italiane. Facemmo una campagna per la Rai che diceva “la tv non è una baby sitter”. Sembra incredibile, vero? Invece, è la prova che già  allora c’era chi si poneva il problema dei bambini lasciati troppo soli davanti allo schermo». 
Può uno spot azzeccato modificare le decisioni di una famiglia, “obbligando” madri e padri a comprare ciò che i figli chiedono?
«Certamente no. In Italia i bambini sono e resteranno a lungo, almeno secondo i trend demografici, un target troppo piccolo e “difficile” perché la pubblicità  investa massicciamente puntando direttamente su di loro. I bambini sono semmai uno dei target e un ingrediente di molti spot. Ho sempre cercato di respingere le richieste dei clienti che volevano infilare bambini qui e là  anche quando i prodotti non erano direttamente rivolti a loro, pur sapendo che si tratta di un grimaldello formidabile».
Qual è il mezzo più potente per raggiungere bambini e ragazzi?
«La pubblicità  è un comportamento e propone dei comportamenti. Oggi i ragazzini sono probabilmente più influenzati da ciò che appare sul computer o dalle scarpe degli eroi dei videogiochi, che dalle campagne tv delle grandi aziende alimentari. Però bisogna chiedersi: i bambini di oggi sono più avanti o più indietro rispetto a noi? La mia risposta è: più avanti. Questo non significa che non occorra proteggerli, soprattutto dal nostro cattivo esempio».
Qualche esempio di “cattivo esempio”?
«Se nessuno compra più insalata, come si può pretendere che i bambini non vogliano il junk food? Se la gita della domenica è al centro commerciale, come possiamo immaginare che non vogliano qualcosa?».
Rovesciando le tesi di Joel Bakan, dunque, la colpa non è dei produttori assetati di utili, ma delle madri pigre?
«Non mi spingo a tanto. Ma la pubblicità  non inventa nulla che già  non sia in circolazione. Quel che ci serve ora è un’assunzione di responsabilità  collettiva: le aziende devono pensare anche al pianeta e alla salute, le agenzie devono lavorare seriamente. E i genitori non devono delegare ad altri. Così la pubblicità  potrebbe perfino entrare a far parte di un processo educativo: penso a temi come l’inquinamento, il clima, i rifiuti».


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