BEATRICE MONTI VON REZZORI

Loading

 Beatrice Monti von Rezzori (ma per esteso il suo nome suona Beatrice Monti della Corte von Rezzori, e, inutile dirlo, quel “von” sta a indicare che stiamo parlando di una baronessa), Beatrice, la padrona, l’anima, la mecenate della Fondazione Santa Maddalena di Donnini, Firenze, è molto bella: alta, sottile, occhi verdi, abiti etnici (oggi è in bianco, camicia e pantaloni).
Forse più bella adesso, a oltre ottant’anni, di quando, a venticinque, ancora legata a uno stile molto tradizionale – le fotografie dell’epoca ce la mostrano con piccoli abiti perfetti, una pettinatura impeccabile ma immobile – la bella ragazza cresciuta a Capri, orfana di una fascinosa mamma armena di Costantinopoli, protetta da Moravia e da Malaparte che era suo vicino di casa, amica di Max Ernst, nel 1955 aprì in via Sant’Andrea, a Milano, una galleria che fece la storia dell’arte americana contemporanea in Italia, L’Ariete, centro di incontro di amici e letterati, da Montale a Buzzati a Carrieri, centro di diffusione di artisti come Rauschenberg, Jim Dine, Francis Bacon, David Hockney, Fontana, Castellani.
La bella ragazza di successo diventò una bella donna “single”, cosa inconsueta in quegli anni. Fino a che…Fino a che, a una festa a Salò, a villa Feltrinelli, nel 1964, in occasione del decimo compleanno della casa editrice, non ci fu l’incontro fatale. Con Gregor von Rezzori, detto Grisha, originario di Cernopol, città  prima austriaca, poi rumena, poi ucraina. Scrittore. Apolide. Bello. Aristocratico. Un personaggio, dice ora Beatrice, “superintelligente, con un passato tempestoso, senza patria, senza radici e senza soldi” che le si presentò anche senza calzini e con le mani piene di amuleti. Colpo di fulmine. Nel 1967, ormai sposati, i due decisero che Grisha il senza patria aveva bisogno di fermarsi, di un pezzo di terra, di radici.
E fu così che la bella Beatrice e il bellissimo Grisha, quando ancora non si usava, comprarono la casa di Santa Maddalena, a Donnini, venti minuti da Firenze, con una vecchia torre del Trecento, una distesa di ulivi, un frinire ininterrotto di cicale, una vista emozionante. Un posto da cui Beatrice poteva continuare ad andare a Milano, alla sua galleria, e dove Grisha poteva scrivere sentendosi a casa. Non c’era elettricità , non c’era acqua — ma c’era l’amico Marco Zanuso a consigliare Beatrice come sistemare la casa. Hanno vissuto, racconta Beatrice, anni bellissimi, a Santa Maddalena. La casa, un misto di semplicità  toscana, fascino mediorientale, decadenza aristocratica, è diventata sempre più bella e ospitale. Poi Grisha è morto. Ed è nata la Fondazione.
«Grisha mi aveva raccomandato: “Non diventare une veuve lugubre, una vedova lugubre”. Io gli avevo già  proposto di fare una fondazione. Ma lui ribatteva: “Babuc (mi chiamava così), après moi le deluge”. Se ne è andato ad aprile del 1998. E a fine di marzo, ricordo, un giorno si è seduto su quel muretto e mi ha detto, Babuc, tu che riesci a fare tutto, fa’ venire presto la primavera. Ma intanto mi faceva vedere il posto in cui voleva riposare per sempre, vede? lì, sotto quella piccola
piramide. Appena se ne è andato ho creato la Fondazione, forse con un eccesso di ottimismo nei confronti dei soldi e contando sulla generosità  degli amici americani. Ma volevo che la casa continuasse a vivere come avevamo sempre vissuto, una casa molto aperta, agli amici, agli artisti, agli scrittori». È nata così la Fondazione Santa Maddalena, non molto diversa, se non per le dimensioni (più piccole) e per la sua internazionalità  (maggiore) dalla celebre casa molto americana di Yaddo, nello Stato di New York, quella dove sono passati Norman Mailer e Patricia Highsmith, John Cheever e Carson Mc Cullers. Un rifugio per gli scrittori, ma non solo (recentemente è arrivato a Santa Maddalena anche Pedro Almodovar, e si è trovato molto bene), che trovano qui il silenzio e la pace indispensabili per inventare, per scrivere, il buon semplice cibo toscano, le verdure e la frutta cresciute in autarchia a Santa
Maddalena. Qui, nella torre, è stato a lungo Bruce Chatwin. Qui scrivevano Michael Ondaatje, Robert Hughes, Edmund Wilson, Zadie Smith. Qui si aggira in questo momento, in ciocie e bermuda kaki, muscolare e languido, inseguito dal molto sexy carlino di Beatrice,
il premiatissimo autore di Le ore, Michael Cunningham, ospite-amico rimasto a godere della bellezza di Santa Maddalena anche ora che la season è chiusa. Beatrice, come è cominciata l’avventura?
«Lentamente. E non c’è mai molta gente, qui. Tre o quattro persone per volta. Diciamo sedici ospiti all’anno. E un premio fuori dagli scontri dei potentati editoriali, che prima si chiamava Vallombrosa, che da sei anni si chiama Città  di Firenze, e che quest’anno è andato a Enrique Vila-Matas con Esploratori dell’abisso».
Uno scrittore di lingua spagnola. Quasi una rarità  in questa provincia anglofona…
«In effetti per anni la lingua comune qui è stata l’inglese. Abbiamo cominciato con Michael Ondaatje e Anita Desai, che allora dirigeva un programma di scrittura creativa a Boston, e che è venuta con sua figlia Kiran, allora ragazzina, la futura autrice di
Gli eredi della sconfitta, un libro bellissimo che è stato scritto qui. È stata l’unica volta che ho invitato persone legate tra di loro – per carità , non voglio coppie di amanti, mariti e mogli, padri e figli, perché i miei ospiti più sono soli, più sono curiosi degli altri, e meglio lavorano. Per quanto riguarda le lingue, poca importa che le si parli veramente, si comunica lo stesso. Ricordo una volta che ci siamo trovati qui io, Michael (Cunningham) e Péter Esterhà¡zy, che in pratica parla solo ungherese e un po’ di tedesco, cinquanta parole, forse meno. Ricordo che uno ha cominciato a citare Baudelaire, l’altro si è agitato sulla sedia e ha risposto con le sue venticinque parole di tedesco… insomma, qui ci si capisce e si fondano delle grandi amicizie, e perché no, delle inimicizie, nonostante la babele delle lingue, perché si parla la stessa lingua, che è l’amore per i libri».
Di qui, in questi quattordici anni, è passata la crema della letteratura contemporanea. Chi avrebbe voluto avere e non ha avuto?
«Don De Lillo. Che mi ha scritto una bellissima lettera per spiegare che, ahimè, mette tutta la sua energia nei suoi libri, e non vuole e non può spostarsi perché altrimenti si deconcentra e si distrae. Un ospite che mi piacerebbe avere è Javier Marias, che considero un genio, e che mi ha scritto informandosi: “quanti saremo? e se li odio tutti?” Un’altra a cui sto dando la caccia, ma che per ora non ho acchiappato, è Jamaica Kincaid. Perché mi piacerebbe avere degli scrittori che scrivano sulla natura, che usino il paesaggio come soggetto…Insomma, cerco di divertirmi, di non fare la vedova lugubre, di arrivare alle persone che potenzialmente mi interessano, di mettere in contato le persone che trovo interessanti».
Sa, Beatrice, il suo Grisha l’ho conosciuto, tanti anni fa, a una cena da amici. Ero seduta, tutta emozionata, alla sua sinistra. E a un certo punto della serata, dopo le solite chiacchiere, mi ha guardato bene e ha detto, “Signorina, complimenti per i suoi deltoidi”. Non sapevo nemmeno lontanamente cosa fossero i deltoidi, a casa ho controllato, sono i muscoli delle spalle. Be’, è il complimento più bizzarro che io abbia mai ricevuto…
«Cosa le ho detto? Non c’è bisogno di sapere una lingua. Ci si spiega lo stesso. Non riesco bene a immaginare a cosa alludesse Grisha con il suo complimento. Ma l’importante per lui, evidentemente, era esprimere ammirazione».


Related Articles

Le Metafore della Memoria

Loading

Archivio o motore di ricerca, come funziona la macchina dei ricordi   Un fotografo e un neuroscienziato, Scianna e Cappa, dialogano su un tema fondamentale per la nostra vita ma anche per l’apprendimento 

“Cara Francesca mi sento umiliato fino al midollo” le lettere di Tortora

Loading

Nei 7 mesi in cella il presentatore scrisse 45 missive alla compagna. Pubblicate per la prima volta in un libro

BELLEZZA E POLITICA

Loading

JAAR: “L’ARTE CAMBIA IL MONDO UNA PERSONA ALLA VOLTA”.
Intervista al maestro cileno mentre la Fondazione Merz di Torino gli dedica la grande mostra “Abbiamo amato tanto la rivoluzione”

No comments

Write a comment
No Comments Yet! You can be first to comment this post!

Write a Comment