Il Professore e i timori per l’instabilità  E spunta l’ipotesi di una crisi pilotata

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Da settimane ormai nei discorsi pubblici del professore si annotano parole come «delusione», «amarezza», «frustrazione», dettate dallo sconforto di non veder riconosciuto sui mercati il lavoro svolto fin qui dal governo. D’altronde la drammatica giornata di ieri — con le Borse a picco e lo spread a «quota 500» — testimonia come le manovre speculative prescindano dai «compiti a casa» fatti dall’Italia, se è vero che Palazzo Chigi parla di un «attacco contro di noi mosso dal cuore della City londinese per affondare l’euro». Un ulteriore indizio che ha rafforzato nel premier il convincimento già  espresso in forma riservata ai suoi interlocutori. E agosto non è nemmeno cominciato.
Secondo Monti l’azione di risanamento è stata portata avanti seguendo le scadenze prestabilite. Ma siccome «più di così non si può fare» e «oltre non si può andare», s’impone ora una valutazione politica della situazione. L’approssimarsi delle urne sta rendendo sempre meno coesa la maggioranza che regge il governo, e più si avvicinerà  la scadenza del voto più — gioco forza — aumenterà  l’instabilità . C’è il rischio quindi che una lunghissima campagna elettorale possa pregiudicare la già  difficile condizione economica del Paese, fino al punto da poter mettere a repentaglio lo stesso sistema democratico. È in questo quadro che il premier ha detto: «Tanto varrebbe allora anticipare le data delle elezioni».
Il voto in autunno torna così in agenda, rientra nel novero dei possibili scenari, ce n’è il riscontro nell’intervento svolto ieri da Casini davanti alla direzione dell’Udc, un inciso del suo discorso passato inosservato: «Non so quando si voterà …». Sia chiaro, lo scioglimento anticipato della legislatura non sarebbe l’effetto di una rottura traumatica della «strana maggioranza». L’ipotesi che il Pdl (o il Pd) possano staccare la spina a Monti non esiste. Semmai potrebbe essere il premier a indicare questa strada, nell’ambito di una crisi condivisa e pilotata.
Il tema è oggetto di discussione nei partiti che appoggiano il governo così come al Quirinale, e deve mettere in conto alcuni ineludibili passaggi preventivi: il varo anticipato della finanziaria e l’approvazione di una nuova legge elettorale. Ecco cosa si celava ieri dietro l’esortazione di Casini a «non lasciar cadere l’appello del capo dello Stato», approvando «prima dell’estate» la riforma del sistema di voto. Solo così si potrebbe risolvere quella che nel Pd definiscono al momento «un’equazione senza soluzione», e che pure il segretario del Pdl aveva evocato nei mesi scorsi, avvertendo che «sulla data delle elezioni bisognerà  ragionare guardando agli interessi del Paese».
Se il voto in autunno torna in agenda su indicazione del premier, allora va letto diversamente il passaggio della conferenza stampa di Monti che è stato poi criticato in modo bipartisan, laddove il professore ha spiegato il rapporto che lega lo spread all’incertezza sul futuro politico del Paese. In questo caso è come se il capo del governo abbia voluto offrire ai partiti l’opzione delle urne attraverso cui dare un segnale di stabilità  ai mercati e arginare così l’offensiva della speculazione. Ma non è detto che sarebbe davvero una via d’uscita, perché il caso spagnolo testimonia come un Paese dove si è appena votato sia ugualmente finito in ginocchio.
E se non c’è certezza salvifica nel ricorso alle urne, è certo — secondo Monti — che una campagna elettorale giocata fuori dai canoni dell’ortodossia europea segnerebbe il destino del Paese per mano dei mercati. Ecco l’avvertimento che ha lanciato ai partiti della «strana maggioranza», scongiurandoli a non intraprendere strade lontane dai confini dell’euro e dell’Unione. In quel caso — è il timore del professore — la speculazione potrebbe ulteriormente accanirsi contro l’Italia. Sarebbe uno scenario devastante, perché un governo in carica solo per l’ordinaria amministrazione potrebbe essere chiamato ad interventi straordinari.
L’incubo di Monti sarebbe quello di dover aprire un dossier che trovò sulla sua scrivania quando arrivò a Palazzo Chigi e che si rifiutò di aprire, «nonostante fossi stato esortato a farlo anche da un pezzo dell’imprenditoria». L’incubo di Monti sarebbe insomma quello di dover firmare la richiesta di aiuto economico che metterebbe il Paese sotto tutela internazionale, ne limiterebbe la sovranità  e di fatto condizionerebbe le scelte politiche del successivo governo eletto. «Non voglio essere tra quelli che tendono la mano», ha sottolineato ieri con tono perentorio. Non vorrebbe essere costretto a farlo.
Intanto pone le istituzioni e i partiti dinnanzi a un bivio, convinto di aver fatto tutto il possibile o quasi. Perché, per quanto ripetutamente smentita, l’opzione di varare una nuova manovra non è del tutto accantonata. E viene valutata l’idea di accorpare il patrimonio dello Stato in una società  pubblica da far acquistare poi forzosamente «per quota» agli italiani. Ma la soluzione dell’intera vicenda è politica, e il professore si rimette alle scelte, offrendo anche la prospettiva elettorale. Certo, la mossa di Monti potrebbe avere un altro effetto, quello cioè di rinsaldare una maggioranza che è giunta (quasi) al capolinea, visto l’esito del voto alla Camera sul fiscal compact. Se così fosse, vorrebbe dire che il tecnico è diventato uno smaliziato politico.


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Mettiamo che tutto vada liscio nella road map delineata dal presidente della Repubblica, e sostenuta pure dal presidente degli Stati uniti. Mettiamo pure che tutto, oltre che liscio, vada per il meglio: che Mario Monti riesca a risollevare i conti pubblici e ad abbassare lo spread facendo il contrario di quello che è prevedibile che faccia, cioè con la patrimoniale, senza macelleria sociale, senza vendere il Colosseo e rilanciando l’occupazione, la produzione e i consumi. Mettiamoci infine l’auspicio che dal suo governo nasca una legge elettorale accettabile.

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