L’Ambiguità  di un Supereroe Notturno e senza Ironia

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L’ironia crea distanza, permette uno sguardo critico sulla realtà , impedisce la formazione di quel tunnel autistico nel quale il patito delle saghe mistery si infila risucchiato dalla sua stessa atona, inerziale coazione a ripetere.
Basta prestare un minimo di attenzione alla figura di Batman per coglierne un’ambiguità  sinistra. È un figura della notte — il suo nome significa pipistrello — quanto Superman è una figura del giorno. Al contrario del suo collega diurno, che è il mascheramento fauve di un banale giornalista, Batman è avvolto in un mantello nero, indossa una maschera sofisticata quanto la sua dimora e i meandri attraverso i quali fa sparire i cosiddetti potenti mezzi (Batmobile, eccetera). Superman ha l’ingenua fierezza del cane, Batman l’eleganza e l’invisibilità  del gatto. La sua città , Gotham City, ha i connotati stranianti di un paese delle meraviglie (l’Alice di Lewis Carroll sarà  non a caso il libro più amato dal piccolo Bruce, prima di abbandonare le buone letture e dedicarsi alla guerra contro il Male).
Batman è l’orfano di una coppia di milionari uccisi davanti ai suoi occhi da un balordo. Cresce in una specie di Casa Usher, allevato da un maggiordomo fine, colto, silenzioso, che sembra uscito a sua volta da un racconto di Edgar Allan Poe. Il filantropismo e più in generale l’indefessa lotta contro il crimine non diradano l’ombra vampiresca nella quale è immersa ogni sua prodezza. I cattivi contro cui si batte sono meno piatti e trogloditi dei cattivi di Superman. Joker è come la sua carta: il criminale mutante, che si adatta a tutte le situazioni. Schizofrenico, sadico, dotato di una fantasia nera che sgorga incessante. Capita che rinsavisca — è successo quando una guerra nucleare ha privato tutti i viventi dei loro superpoteri —, ma dura il tempo di una puntata. E che dire di Catwoman? Una supercriminale che già  alla sua prima apparizione, nella striscia creata da Bob Kane e Bill Finger nel 1940, mostra la stoffa dell’eroina. E poi il boss mafioso Zucco (che ucciderà  i genitori di Robin, il dolce aiutante dalla cui comparsa Batman comincerà  a fare prigionieri anziché trucidare i nemici). E poi il nuovo, recente Bane, il forzuto dopato (i suoi muscoli sono collegati a tubicini che gli iniettano un potente steroide), l’energumeno con la maschera da wrestler messicano che ha ridotto a lungo sulla sedia a rotelle il suo rivale e che, negli anni Novanta, era stato lanciato dalla DC Comics come la fine di Batman. 
La nostra realtà  è molto più complessa e sfaccettata di Gotham City e forse non occorre essere dei grandi psicologi per dire che era proprio questo ciò contro cui sparava il ragazzo che ha compiuto la strage di Denver. In nessun posto al mondo, meno che meno in America, la dotazione che viene fornita agli individui — giovani e adulti — per capire, o anche semplicemente per provare ad affrontare la nebulosa nella quale trascorriamo le giornate, può dirsi sufficiente. Manca proprio un alfabeto per dirla. Lo straordinario volume di informazioni in tempo reale, ad esempio, rispetto alla compressione della sfera dell’esperienza: ecco il primo gas della nebulosa. Ma si potrebbe continuare. Certo, i superpoteri, le forze sovrumane, i buoni e i cattivi, la realtà  senza sfumature, tagliata con l’accetta dei manichei, tutto questo può essere un’efficace cura oppiacea, il cui effetto però non dura a lungo. E quando finisce hai solo voglia di sparare.


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