L’esperimento fallito di Humala

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Un anno fa, nel celebrare le Feste Patrie del 28 luglio, che ricordano l’indipendenza dalla Spagna dichiarata nel 1821, i peruviani salutavano l’insediamento di Ollanta Humala alla presidenza con visibile entusiasmo.
Sabato scorso, nell’ascoltare il primo messaggio annuale alla nazione letto dal presidente nell’aula del Congresso, molti dei suoi elettori e sostenitori devono essersi sentiti defraudati. Javier Diez Canseco, il leader più autorevole della sinistra parlamentare che ha lasciato recentemente la coalizione governativa Gana Perຠper un nuovo gruppo parlamentare in formazione, ha definito il messaggio di Humala «un discorso senza anima, in cui non ha neanche cercato di recuperare la relazione con le forze sociali che l’hanno portato al governo per trasformare il paese».
Che la relazione fra il presidente e il suo elettorato si sia deteriorata, nel corso di quest’anno, non è un mistero. Le concessioni all’opposizione sono state così grandi e numerose fin dall’inizio da dare l’impressione che la destra, sconfitta nelle urne, si sia «consolata» occupando il governo. 
Un anno fa, l’elezione era stata molto combattuta: la destra, rappresentante dell’oligarchia nazionale, dell’industria estrattiva, del capitale transnazionale e degli interessi statunitensi, non aveva trovato di meglio che candidare Keiko Fujimori, la figlia del dittatore incarcerato per violazione dei diritti umani che governò il Perù negli anni ’90. La sinistra si era agglutinata intorno a Ollanta Humala, un ex-militare progressista, fondatore del Partido Nacionalista Peruano, che si presentava per la seconda volta (nel 2006 era stato sconfitto da Alan Garcà­a).
Mentre Humala, fra un’elezione e l’altra, seppe temperare le proprie posizioni – e smise di ispirarsi al polemico Hugo Chà¡vez per avvicinarsi all’immagine più concilante del brasiliano Lula – la destra giocò in un modo così sporco e sleale, specialmente nell’ultima fase della campagna, da alienarsi molte simpatie e guadagnarsi l’epiteto di «cavernicola». Lo scrittore Mario Vargas Llosa, che in un primo momento aveva detto che decidere fra Keiko e Ollanta era come dover scegliere fra cancro e aids, si schifò talmente della campagna orchestrata dal gruppo El Comercio che tolse la sua collaborazione al decano dei giornali peruviani per trasferirsi su Repàºblica, quotidiano di centro-sinistra. Non si sa se fu decisivo l’appoggio che, al secondo turno, Vargas Llosa e l’ex-presidente Alejandro Toledo diedero a Ollanta Humala. ma sicuramente fu molto importante. 
Tre governi in un anno – l’ultimo entrato in funzione pochi giorni fa – non parlano certo di stabilità . Il primo governo, condotto da Salomon Lerner, un ingegnere progressista, fu un miracolo di equilibrio – i ministeri economici alla destra, quelli sociali alla sinistra – che durò meno di cinque mesi. Non contenta delle posizioni conquistate, che garantivano il continuismo in economia, l’opposizione non smetteva di giocare al tiro a segno con i membri progressisti del governo. E se a volte le accuse erano francamente ridicole – come quando alla ministra della cultura, la grande musicologa e cantante afroperuviana Susana Baca venne rinfacciato di dedicarsi più ai concerti che al suo dicastero – altre volte le frecce centravano il bersaglio, come nel caso del vicepresidente Omar Chehade che fu preso con le mani nel sacco in un atto di corruzione.
Ma lo sfondo costante, ossessivo di quest’anno sono stati i conflitti socio-ambientali provocati dall’industria estrattiva, spina dorsale dell’economia nazionale. Il progetto di Conga, che prevede il trasvaso di quattro lagune nella regione di Cajamarca per estrarre l’oro e il rame sottostanti, alterando un intero ecosistema e minacciando la sopravvivenza di comunità  dedicate all’agricoltura e all’allevamento, è emblematico di un tipo di conflitto sempre più frequente con l’espandersi della frontiera estrattiva. Il progetto della compagnia mineraria Yanacocha, proprietà  per il 51% della statunitense Newmont Mining Corporation, una delle maggiori compagnie aurifere del mondo che opera in quattro continenti, ha provocato il rifiuto compatto delle popolazioni interessate. La notizia delle battaglie a difesa delle lagune di Conga ha fatto il giro del mondo, mostrando lo stretto vincolo fra le popolazioni originarie e il loro habitat: ma ha anche scatenato l’aggressione del governo, che criminalizza le proteste, dichiara lo stato d’emergenza in tre provincie, etichetta come violentista antiminero chi si oppone al progetto e fa arrestare le autorità  locali che si fanno portavoce della popolazione. 
Conga, una parola non pronunciata nel messaggio alla nazione, eppure paradigmatica dei più di cento conflitti che, nel primo anno di presidenza, hanno provocato 17 morti. Di fatto, il primo cambio di governo, avvenuto nel dicembre scorso, sembrò fatto apposta per risolvere i conflitti antimineros con la mano dura: Oscar Valdés, il primo ministro che sostituiva Lerner, era un ex-militare che vedeva il paese come una caserma da disciplinare e raccolse immediate antipatie dai settori più diversi. Il suo avvento fu considerato da numerosi osservatori come una decisa svolta a destra, o perfino una militarizzazione del governo. Furono in molti a dire che la Grande Trasformazione promessa da Humala durante la campagna c’era stata davvero, ma solo per quanto riguardava lo stesso presidente.
Anche in politica estera, con l’abbandono del discorso di integrazione latinoamericana e l’adesione all’Alleanza del Pacifico, che raggruppa Messico, Colombia, Cile e Perù nel cortile degli Usa, Ollanta Humala è stato deludente e ha tradito le aspettative.
Un altro fallimento – ma questo ereditato – è l’incapacità  di intervenire nella regione del Vrae (Valle del Rio Apurimac y Ene), una zona «quasi fuori dal controllo dello stato» secondo l’ex-ministro degli interni Fernando Rospigliosi, in cui i produttori di cocaina e i residui della guerriglia di Sendero Luminoso, ormai ridotti a braccio armato dei narcotrafficanti, la fanno da padroni. 
Sarebbe ingiusto, però, non menzionare alcune realizzazioni, come i programmi sociali in favore dell’infanzia e della terza età , anche se di taglio assistenzialista; l’aumento al salario minimo, anche se minimo, e l’approvazione della ley de consulta, che obbliga lo stato a consultare i popoli indigeni prima di intraprendere progetti che riguardano i loro territori tradizionali. Ma questa legge, per quanto civile, non riesce a disinnescare conflitti socio-ambientali come quelli di Ancash, Apurimac, Espinar e Conga. 
A presiedere il terzo e ultimo governo, nominato il 23 luglio scorso, è stato chiamato Juan Jiménez Mayor, un costituzionalista che era ministro della giustizia e promette, non solo per Conga, di far valere la via del dialogo. Dopo il vistoso insuccesso del governo Valdés, la parola d’ordine, che era stata fino allora «inclusione», adesso è diventata «dialogo». A questo nuovo cambiamento di rotta non deve essere estraneo il calo di popolarità  di Ollanta registrato nei mesi della mano dura. In un periodo in cui si governa sondaggi alla mano, sollevare solo il 40% di approvazione, come è il caso del presidente, può essere considerato preoccupante. Certo, paragonato ai suoi predecessori non va poi così male: alla svolta del primo anno, Alan Garcà­a (2006-2011) raccoglieva il 32% e Alejandro Toledo solo il 18. Ma la promessa di cambiamento è svanita.


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