Una pratica antica

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Ricordando i «compiti dell’informazione» di una «stampa libera in un paese democratico» e chiamando in causa le massime autorità  dello Stato, Alberto Burgio (sul manifesto del 29/7) sembra sottovalutare la pesante realtà  che opprime l’opinione pubblica in Italia. Il grado di omologazione ideologica ha sommerso anche la sinistra storica e i suoi organi di stampa. La chiusura di testate non-profit e l’attacco «liquidatorio» al manifesto sembrano sintomi di un lento tramonto.
Il concetto di «furto» d’informazione presuppone che prima di esso fossimo stati informati in modo esauriente da una «stampa indipendente» o dai mass media in generale. Non è così, da secoli sappiamo che «l’opinione dominante è quella di chi domina». E nella società  industriale la stampa di massa persegue «la diffusione dell’ignoranza per mezzo della tecnica» (Kurt Tucholsky, 1924) – in contrasto con la precedente stampa d’opinione borghese di ispirazione illuministica che mirava alla creazione di una coscienza politica dei propri lettori, meta anche della stampa del movimento operaio. La descrizione di Tucholsky – della stampa di Hearst (USA) e quella dei magnati nella Germania di Weimar – è calzante ancora per l’oggi: «Questa situazione è una copia fedele dell’ordine sociale che la produce. Una noia chiassosa e in più una gravissima responsabilità : l’occultamento della verità  e la distrazione dall’essenziale.»
Per capire come poter contrastare le forme di deformazione attuali e superare la contrapposizione tra presunti «ingenui» o «iperrealisti» (Burgio), conviene partire dall’analisi della realtà  economica dei mass media che nel capitalismo sono imprese produttive come altre. Nella loro forma cosiddetta «libera», ovvero dal legame con partiti, istituzioni o organizzazioni di massa, i media mirano al maggior profitto – e sono controllati dall’industria e dalla finanza non solo attraverso la diretta proprietà  delle testate, quanto – in modo più sottile – attraverso la pubblicità  che condiziona fortemente il contesto redazionale e con la crisi economica anche il declino dei giornali stessi. 
La merce comprata come materia prima dalle agenzie di stampa, rielaborata redazionalmente e poi venduta ai lettori costituisce una scelta mirata di notizie e opinioni, nemmeno nettamente distinte l’una dall’altra, come invece vorrebbero i manuali di giornalismo. Proprio questo carattere di merce è in netto contrasto con l’idea di “libertà  di stampa” – garantita formalmente dall’ultimo dopoguerra nelle costituzioni democratiche, ma non realizzata sotto le premesse esistenti. Nel migliore dei casi si ha una varietà  di testate con opinioni diverse, dalle quali il lettore esperto attinge una propria visione del mondo. Ma da almeno cento anni i grandi mass media sono strumenti di propaganda – evidente nei decenni fascisti in Italia come in Germania, con modi più raffinati e più occulti nei decenni dopo il 1945 – per neutralizzare l’aspirazione delle masse alla libertà  politica, riducendola alla libertà  di poter consumare, secondo il modello Usa. Molto prima che in Italia la forte concentrazione economica nel settore editoriale aveva prodotto nella Germania federale una rapida omologazione dell’opinione pubblica (contro la quale si rivolsero gli studenti nel ’68 chiedendo di espropriare il magnate della stampa Axel Springer). Dell’esito sconfortante dà  prova per esempio la recente inchiesta di Olivier Cyran su «Pensionato tedesco e lo spauracchio greco» in Le Monde Diplomatique, luglio 2012. È di questo stato di cose e delle sue implicazioni politiche che si dovrebbe discutere a sinistra, poiché il cosiddetto conflitto d’interesse di Berlusconi costituisce un problema molto più ampio del mero assetto proprietario. Se il problema della sinistra è anche un problema di cultura, come si ripeteva nel recente dibattito bolognese, bisogna studiare le condizioni materiali di quella cultura. 
A parte le grandi continuità  negli assetti imprenditoriali e personali nel giornalismo europeo durante il Novecento, vale tuttora in modo più o meno velato quell’intreccio fitto di complicità  corporative ed interessi che Tucholsky rilevò nel 1932, quando il redattore era libero di fare ciò che voleva solo se questo coincideva con la volontà  del proprio capo. Ovvero a condizione di recepire lo spirito del «rappresentante del cartello che controlla il giornale», purché «non si spezzi la catena dei riguardi, quelli verso gli inserzionisti e quelli verso la suscettibilità  dei lettori borghesi». 
Il riferimento alla fase finale della Repubblica di Weimar, che anche Valentino Parlato richiama nei suoi commenti, non è casuale. «Nella situazione attuale la cosa sconvolgente non è che il fascismo vinca, ma che gli altri vi si adattino. Brà¼ning cerca di assimilarsi a Hitler, i socialdemocratici prendono a modello Brà¼ning. Il fascismo condiziona comunque gli argomenti e il livello», constatò nel 1932 il futuro premio Nobel per la pace Carl von Ossietzky. Basta sostituire i nomi con quelli dei politici di turno e il termine fascismo con neoliberismo e si parla dell’oggi.
Di fronte a tutto ciò la salvaguardia di un giornale come il manifesto appare come un compito che tutte le menti non omologate dovrebbero avere a cuore. Tralascio qui il dibattito necessario e appena iniziato sul futuro carattere del quotidiano. Ma vorrei sottolineare l’assoluta necessità  di mantenere la libertà  economica rispetto a forze esterne e ai condizionamenti «della corruzione indicibilmente lieve della vita», come scrisse Tucholsky nel 1925 della Weltbà¼hne, che era finanziata dai soli abbonati e ciò le permise di costruire un autentica «opinione pubblica alternativa, perché solo in essa i conflitti vengono affrontati con le armi dell’intelletto». E qui vanno ricordati anche i «circoli degli amici della Weltbà¼hne», sparsi per il Reich, di cui Tucholsky ricordò: «Da questa fonte, attraverso una rete di mille piccoli canali arrivano (alla redazione) sollecitazioni, formulazioni, concezioni del mondo, tendenze e volontà  diverse», unite dalla «spinta a trasformare la Teutonia in Germania». 
Anche l’Italia ha urgente bisogno di ricuperare le sue tradizioni migliori, di riattivare il suo potenziale di sinistra prima che sia troppo tardi e che vincano definitivamente i vari populismi in prossime elezioni. Il manifesto è l’ultimo quotidiano libero da padroni che potrebbe costituire nell’immediato una piattaforma per contribuire alla formazione di un fronte elettorale – forse vincente nei numeri – con un programma alternativo alla politica dei «tecnici» che sta portando il paese alla deriva. Altrimenti non ci sarà  più un luogo in cui constatare: «Immediatamente prima di un gran patatrac cose e uomini sembrano essere colti da irrigidimento, come in uno spazio sotto vuoto. Per alcuni secondi tutto trattiene il fiato. Al momento stiamo vivendo uno di questi secondi. Dopo nessuno comprenderà  che li abbiamo lasciati passare così inutilizzati, e senza opporre resistenza» (Ossietzky, 1932).


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