Ihab, torcia umana nell’inferno di Gaza

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GAZA CITY. «Vado a cercarmi un lavoro». Ihab Abu Nada domenica scorsa aveva salutato così la madre uscendo di casa. Poi è sparito fino a quando radio e televisioni hanno riferito che un 21enne di Gaza si era dato fuoco perché disoccupato. Le ustioni, gravissime, non gli hanno dato scampo. Ihab si è spento domenica sera senza riprendere conoscenza, gettando nella disperazione il padre, Sufian, che sabato sera lo aveva esortato a trovare un lavoro, qualsiasi lavoro pur di portare qualche soldo a casa. «Siamo una famiglia povera, guadagno pochissimo e la vita costa sempre di più – spiega Sufian – mi sono ridotto a raccogliere la frutta e la verdura buttata via dai commercianti. Ihab era l’unico che poteva darci una mano». Troppa pressione su Ihab. Il giovane non ce l’ha fatta. Fragile di fronte ad una condizione insostenibile, si è tolto la vita imitando il gesto del giovane disoccupato tunisino Mohamed Bouazizi che ha innescato la rivolta contro il dittatore Ben Ali.
La frattura politica
Il passo estremo fatto da Ihab Abu Nada ha squarciato il silenzio che regna sulla disperazione di tanti giovani di Gaza, tra le prime vittime delle conseguenze del blocco israeliano della Striscia e anche della spaccatura tra Fatah e Hamas, tra il governo di Ramallah e quello di Gaza. Una frattura che ha riflessi immediati sull’elaborazione di politiche economiche «nazionali». La disoccupazione tra i giovani di Gaza è sempre stata alta, intorno al 20 per cento secondo le statistiche ufficiali. Negli ultimi anni però, a causa del blocco, ha raggiunto il 50 per cento. E a Gaza molti ragazzi affrontano la crisi imbottendosi di pillole antidepressive e psicofarmaci a basso costo. «Se un giovane si toglie la vita a causa della povertà , vuol dire che a Gaza c’è una bomba che rischia di esplodere», avverte Rami Saleh, uno studente dell’università  islamica . «Occorrono risposte immediate», aggiunge da parte sua Kamel, un altro studente, lanciando critiche al governo di Hamas: «Ogni giorno apprendiamo di nuovi progetti edilizi e di fondi che vari paesi arabi mettono a disposizione del governo (del movimento islamico). Per noi non fanno nulla, forse il lavoro c’è ma solo per quelli che sono di Hamas».
«Invivibile» dal 2020
Le cose non potranno che peggiorare. Gaza, chiusa nella morsa del blocco israeliano e della spaccatura tra Fatah e Hamas, sopravvive sempre di più con l’aiuto delle Nazioni Unite e di altre istituzioni internazionali. I traffici clandestini, attraverso i tunnel sotterranei con il Sinai (che l’Egitto ha fatto demolire solo in parte), garantiscono profitti enormi alle poche famiglie (già  ricche) che li gestiscono e al governo di Hamas (che ha imposto una tassa sul contrabbando). Offrono però ben poco alla popolazione dal punto di vista dell’occupazione (sarebbero meno di tremila i palestinesi direttamente coinvolti nello scavo dei tunnel e nei trasporti sotterranei). Su questa base si inseriscono i risultati delle ultime ricerche pubblicate dalle Nazioni Unite. Uno studio, il più ampio ed articolato fatto in questi ultimi anni, avverte che Gaza non sarà  più «vivibile» a partire dal 2020. Qualche palestinese ha accolto questo dato commentando che già  oggi «non è vivibile», se si tiene conto del milione e 650mila palestinesi che risiedono in quel fazzoletto di 390 kmq che rappresenta il territorio della Striscia. Lo studio pubblicato dalle Nazioni Unite però va preso molto sul serio perché mette in evidenza la gravità  di una situazione che raggiungerà  il suo limite massimo tra meno di otto anni.
«Se non saranno fatti investimenti per garantire agli abitanti acqua, istruzione, energia e sanità , a Gaza sarà  impossibile vivere a partire dal 2002», ha spiegato qualche giorno fa Maxwell Gaylard, a nome delle Nazioni Unite. Tra otto anni, ha aggiunto Gayland, la popolazione crescerà  di altri 500mila, con la percentuale di under 18 ben più alta dell’attuale 51 per cento. La revoca del blocco israeliano e la riapertura dei valichi resta il fattore determinante per rilanciare l’economia di Gaza e avviare la realizzazione di infrastrutture civili. È questo il primo decisivo passo per invertire la tendenza. Se è vero che il Pil di Gaza è cresciuto nel 2011 del 28 per cento (grazie alle generose donazioni giunte da vari paesi arabi, Qatar in testa, al governo di Hamas), è altrettanto vero che la base di partenza era minima dopo i gravissimi danni (oltre a 1.400 morti) causati dall’offensiva israeliana «Piombo fuso» del 2008. La ricostruzione seguita alla guerra ha garantito migliaia di posti di lavoro sino ad oggi ma in futuro le cose andranno diversamente. Per questo le Nazioni Unite prevedono che la crescita sarà  più lenta nei prossimi anni.
L’acqua che non c’è
Gaza, dice Robert Turner, direttore delle operazioni dell’Unrwa (l’agenzia dell’Onu che assiste i profughi palestinesi), avrà  bisogno entro il 2020 di 440 nuove scuole, altri 800 posti letto negli ospedali e di almeno altri mille medici. Una delle sfide principali sarà  garantire acqua potabile ad oltre due milioni di palestinesi, poiché la domanda crescerà  di almeno un 60 per cento nei prossimi anni. Le riserve idriche di Gaza non saranno più disponibili per il consumo umano tra appena quattro anni, avverte Jean Geobold dell’Unicef. Servono perciò subito 350 milioni di dollari per costruire un impianto di desalinizzazione ed investimenti massicci per il trattamento delle acque di scarico. Oggi solo un quarto delle acque nere di Gaza vengono trattate prima di finire in mare.
«Un effetto di questo quadro sono le malattie respiratorie e le gastroenteriti che colpiscono prima di tutto i bambini», spiega Mohamed al-Kashef, direttore generale del dipartimento per la cooperazione internazionale del ministero della salute di Gaza. Secondo l’Unicef il 26 per cento delle malattie in età  pediatrica registrate nella Striscia sono il risultato del problema-acqua. «La fine del blocco (israeliano) e del conflitto – dice Jean Geobold – e l’apertura dei valichi, sono fondamentali per salvare Gaza e dare una speranza ai giovani».


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