Il segreto Chrysler: venditori, modelli (e investimenti) La sfida giapponese

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Corre la Chrysler “reinventata” da Sergio Marchionne, e pure forte. «Non possiamo fermarci adesso» ha ripetuto l’amministratore delegato appena poche settimane fa di fronte ai 2.500 concessionari riuniti a Las Vegas per conoscere i nuovi programmi del gruppo americano. Il senso di quelle parole è la volontà  di sfruttare al massimo la ripresa americana, mentre l’Europa langue e accumula perdite.
La corsa e la falsa partenza
I dati parlano da soli: nell’ultimo mese le vendite Chrysler sono cresciute del 14%, da gennaio ad agosto poi l’incremento è stato del 26%. Che vuole dire più di un milione e 100 mila vetture, circa il doppio delle 543 mila consegnate dall’altra parte dell’Atlantico. In poco più di tre anni la società  americana controllata da Fiat ha investito 4 miliardi e mezzo di dollari ricreando 9.400 posti di lavoro. Numeri capaci di modificare la geografia del Lingotto a tempo di record. Chrysler, pur restando la più piccola fra le Big Three, registra tassi di crescita superiori, ma non ha ancora raggiunto un accordo con i sindacati canadesi per il rinnovo del contratto, i quali hanno già  chiuso con Gm e Ford. Dietro alla «resurrezione» — dicono in America — una rete di vendita efficiente, campagne pubblicitarie per trasformare l’immagine della marca (gli spot del Superbowl prima con Eminem e poi con Clint Eastwood sembrano aver funzionato) e promozioni a basso costo che incidono poco sui margini. Va bene anche la piccola 500 (sono oltre 28.500 quelle vendute nei primi otto mesi, +158%, anche se le previsioni al lancio erano di 50 mila pezzi) che inizialmente faticava parecchio: una falsa partenza che è costata il posto a una giovane manager di origini italiane, Laura Soave. Rispetto alla General Motors, la Chrysler ha il vantaggio di una maggior autonomia strategica, avendo già  rimborsato il debito al Tesoro.
«Government Motors»
Per il primo produttore mondiale, invece, la partecipazione governativa è uno dei nodi da sciogliere «il più presto possibile», come ha ribadito in più occasioni il numero uno Dan Akerson: a Detroit vorrebbero avere mani libere e lasciarsi alle spalle l’infamante nomignolo «Government Motors», copyright dei repubblicani. In piena campagna elettorale per la Casa Bianca, il salvataggio di Detroit è tornato di grande attualità : Romney accusa Obama di aver sprecato i soldi dei contribuenti. Se Washington decidesse ora di liberarsi delle 500 milioni di azioni Gm in suo possesso, ci rimetterebbe un mucchio di soldi (il valore del titolo è sceso da 33 a 24 dollari). Gettando così nuova benzina sul fuoco della propaganda repubblicana. Tanto più dinanzi alle previsioni degli analisti, per i quali il titolo è destinato a salire nel 2013, quando il costruttore rinnoverà  il 70% circa della sua gamma di prodotti. A pesare sulle perfomance di Borsa è anche l’andamento delle attività  europee: le perdite di Opel incidono negativamente sui conti di una società  che in casa e in Cina macina robusti utili. La partita è ancora tutta da giocare, a trarne vantaggio potrebbero essere i concorrenti.
La «leggerezza» Ford
Non solo la Chrysler. Ford, l’unica a non aver chiesto aiuti di Stato, si conferma il secondo player di mercato. Con una missione precisa: generare profitti dalle economie di scala, costruendo una gamma di vetture adattabili in ogni parte del mondo a costi relativamente ridotti. Perché fino all’85% dei componenti sono comuni. Sull’architettura della Focus il programma prevede di realizzare 3 milioni di veicoli l’anno, necessari a far fruttare l’investimento iniziale. Un’intuizione dell’amministratore delegato Alan Mulally: concentrarsi sul marchio principale, la Ford, dopo aver venduto tutte le controllate, da Aston Martin, a Jaguar-Land Rover e Volvo, che appesantivano i conti. La casa americana, pur affrontando in Europa scenari simili a quelli di Opel e Fiat — conti in rosso nel primo semestre peseranno sul risultato complessivo, avvertono da Detroit — può permettersi di sostenere le perdite e rassicura i lavoratori sul futuro dello stabilimento belga di Genk, che veniva considerato a rischio. Mulally è convinto che passata la crisi il Vecchio continente si rimetterà  in moto, è solo questione di resistere un po’. Ma i Big Three in America devono anche vedersela con i rivali giapponesi tornati nuovamente alla ribalta dopo anni difficili a causa del terremoto: da Toyota, Honda e Nissan, passando per la coreana Hyundai, i tassi di crescita sono vertiginosi. La spinta arriva dalla domanda di auto di dimensioni ridotte e dai bassi consumi, che gli americani hanno iniziato a comprare. Anche se i veri motori della ripresa sono altri: Suv e pick up, mezzi preferiti dalla middle class Usa che hanno fatto la fortuna di Detroit. Su ogni veicolo venduto i margini di profitto possono superare i 10 mila dollari, una cifra enorme. Che rimarca la differenza ancor di più fra le due sponde dell’oceano.


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