L’articolo 18 divide Epifani e Cofferati

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ROMA — Sono stati entrambi segretari della Cgil, in successione: Sergio Cofferati dal 1994 al 2002, Guglielmo Epifani dalla fine del 2002 al 2010. E sono tutti e due impegnati nel Pd (e prima nei Ds). Cofferati da protagonista, prima come sindaco di Bologna dal 2004 al 2009 e poi come europarlamentare. Epifani in un ruolo più laterale, che non esclude però un coinvolgimento diretto in futuro (magari alle prossime elezioni, senza dimenticare che già  in passato il partito gli ha offerto, inutilmente, candidature e incarichi chiave). Ma le affinità  terminano qui. E ora i due sono in disaccordo totale sul referendum per l’abrogazione delle modifiche alla disciplina dei licenziamenti decise con le leggi Sacconi e Fornero. Referendum proposto da Nichi Vendola (Sel), Antonio Di Pietro (Idv), Rifondazione comunista e altre sigle dell’estrema sinistra.

In realtà , Cofferati ed Epifani si contrastano da molti anni e, come spesso accade tra ex capi che si sono succeduti sulla stessa poltrona, il passo tra disaccordo e rottura è breve. Sintetizzando, è successo che Cofferati, che dopo il 2002 veniva accreditato come il possibile nuovo leader di una sinistra riformista, si è a sorpresa collocato sulle posizioni della sinistra rifondarola di Fausto Bertinotti, col quale pure si era scontrato quando entrambi stavano in Cgil, e col quale invece ha finito l’anno scorso per dar vita a un’associazione, «Lavoro e Libertà ». Stessa cosa con i metalmeccanici della Fiom: ne aveva combattuto il massimalismo quando era alla guida della Cgil, dopo invece si è schierato dalla loro parte. Certo, Cofferati è rimasto in un percorso coerente di difesa dell’articolo 18 come un diritto inviolabile dei lavoratori, battaglia cominciata nel lontano 23 marzo 2002 con l’oceanica manifestazione del Circo Massimo, ma questo oggettivamente lo ha portato ad avere come compagni di strada tutti i leader della sinistra antagonista, da Bertinotti appunto a Vendola, da Gianni Rinaldini a Maurizio Landini. E così, il riformista che veniva dai chimici (categoria quanto mai moderata del sindacalismo) ha finito, tanto per fare un esempio, per sostenere all’ultimo congresso della Cgil (2010) la minoranza di sinistra contrapposta alla maggioranza epifaniana e ora appoggia i referendum per ripristinare l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
«I referendum sono condivisibili per ragioni di merito e di opportunità  â€” dice Cofferati —. È giusto chiedere l’abrogazione di quelle norme che hanno cancellato diritti nel lavoro e nella cittadinanza e ridare protezione e dignità  a chi lavora, ripristinare alcune elementari forme di democrazia nei luoghi di lavoro». Questo non significa, conclude l’ex leader della Cgil, che lui non sosterrà  il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, alle primarie.
Un ragionamento che non convince affatto il successore di Cofferati. Che ieri con un articolo in prima pagina sull’Unità , pur senza chiamarli in causa per nome e cognome, ha bocciato i referendari. Per ragioni più pratiche che di principio. Si chiede retoricamente Epifani: «Mentre si prepara la fase che porta alle elezioni e al possibile e auspicabile cambio del quadro politico, con le conseguenze che può avere sulle norme o su una parte di esse oggetto del referendum, che segno dà  alla prospettiva del cambiamento una strada referendaria che divide» e che oltretutto «sarà  sottoposta al voto solo nel 2014?». Per questo, conclude, l’iniziativa del referendum «non convince ed è troppo al di sotto del profilo di cambiamento che bisogna tenere». Una mossa controproducente, insomma.
Infine Epifani, che nasce socialista, ha militato nel Psi e che nel 1984 visse la spaccatura della Cgil sul decreto che depotenziava la scala mobile (lui con la minoranza socialista contro il referendum abrogativo del decreto Craxi mentre Cofferati stava con la maggioranza comunista favorevole) ammonisce: «La storia dei referendum sul lavoro dovrebbe suggerire prudenza, misura, attenzione. Nel passato abbiamo avuto referendum che si pensava di vincere e che invece sono stati persi, per di più con il voto operaio». È quello che successe nel 1984 al Pci e alla Cgil. E, come si vede, gli strascichi di quella lacerazione, incredibilmente, non sono ancora esauriti.


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