Non ti fidar di Internet

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NEW YORK. Il primo a cascarci fu Tony Blair. L’uomo che aveva fatto sognare gli inglesi – e diviso la sinistra – aveva sempre avuto, si sa, un rapporto controverso con i giornali: soprattutto con i giornalisti. E così aveva salutato con gioia l’ascesa di quel nuovo e formidabile media: Internet. “All’inizio” confessò “pensai che avrebbe finalmente messo a tacere quella cagnara feroce tra giornalisti e politici. Invece il trionfo di Internet ha portato a tutt’un altro risultato. In rete sono fiorite ancora di più le dietrologie. E con molto più gossip”. C’eravamo tanto amati. Ma dalla politica al giornalismo, dal supermarket di Amazon alle ricerche che facciamo su Google, dalla musica di iTunes fino ai ristoranti di OpenTable, un fantasma si aggira per il web. Ed è il fantasma del dubbio: possiamo davvero fidarci di Internet? O meglio: possiamo ancora fidarci di Internet?
Eh già . Il mezzo che prometteva di rilanciare il messaggio senza valori aggiunti ha finito per aggiungere a ogni messaggio un valore: economico. La rivolta dei ristoratori italiani contro le recensioni di TripAdvisor è solo l’ultimo esempio che ci tocca da vicino. Una stella su TripAdvisor ormai può contare più di quella della mitica Michelin. L’unico particolare è che le stelline delle antiche e gloriose guide erano firmate da altrettante stelle della cucina: recensori professionisti imparziali per mestiere e missione – o almeno così nelle intenzioni. Oggi invece sulla grande piazza virtuale di Internet ciascuno dice la sua: siamo tutti recensori. Garanzia di libertà  di opinione? Non sempre: se – ahinoi – troppo spesso è stata in vendita la virtù di pochi giornalisti (pennivendolo non è certo un neologismo) figuriamoci che cosa succede quando i consigli per gli acquisti provengono dall’intera umanità .
In America il fenomeno è così tristemente consolidato che i consumatori stanno cercando di tirare su qualche barriera virtuale. Se di Internet non ci si può più fidare conviene subito chiedersi come difendersi. E una risposta arriva per esempio dagli esperti di LifeHacker: che hanno stilato una specie di vademecum – fatto proprio da Consumer Report – per rendere il navigatore meno sprovveduto. Diffidare, per esempio, di tre tipi di recensioni. Grazie a tre regole. Numero uno: dubitare di quelle dal linguaggio entusiastico e troppo piene di esclamazioni. Numero due: occhio all’uso sconsiderato della prima persona, quasi a sottolineare – excusatio non petita – la veridicità  del consiglio (falso). Terzo e più importante punto: attenti a quante volte è ripetuto il nome del prodotto.
Non sempre però il consumatore riesce a districarsi con queste semplici difese tra le mille trappole delle tecniche di seduzione. E il fenomeno è diventato talmente invadente da aver spinto un gruppo di ricercatori della Cornell University a sviluppare un vero e proprio algoritmo per identificare le recensioni fasulle. Un algoritmo contro un altro algoritmo: perché questo in fondo è il segreto che è alla base proprio del successo delle “fake reviews”. Secondo la grande regola che ha portato al trionfo di Google: il web è prima di tutto ricerca. Sì, nel grande mare di Internet vince chi lancia più salvagenti: oppure più trappole. I motori di ricerca pescano e rilanciano il materiale che trovano. Non è insomma questione di bello o brutto: più che l’estetica conta la matematica. Dal libro alla lavatrice, ogni prodotto venduto su Internet si porta dietro le recensioni che trova sul web. E voi tra la marca a una o cinque stelle quale scegliereste? Non c’è dubbio: la marca a cinque stelle. Peccato che sia spesso una marchetta.
Todd Jason Rutherford ha costruito un impero economico sulle false recensioni: scritte tutte da lui stesso. Il signore è arrivato a guadagnare 28mila dollari al mese grazie ai servigi del suo GettingBookReview.com: un sito che scrive e fa scrivere appunto a bacchetta. E non una dieci o cento: fino a migliaia di recensioni. Nella polvere del web è finito anche un idolo dello stesso. John Locke è il primo scrittore al mondo che è riuscito a superare il milione di libri autoprodotti: ma anche autorecensiti. John ha confessato proprio a Repubblica la frustrazione di essere stato non con uno ma con almeno due volumi in testa – nella stessa settimana – alla classifica del New York Times. Senza mai aver ricevuto l’onore di una recensione del New York Times: «Ho dovuto assumere addirittura un esperto di pubbliche relazioni» dice il giallista che nella vita è diventato ricco di suo gestendo assicurazioni e attività  immobiliare. «Sì, ho pagato per entrare in contatto con i critici: e ancora niente. Il motivo? Mai avuta una risposta ufficiale. Però ti fanno capire: se apriamo le porte a un autore che si pubblica da sé, poi saremmo inondati da un milione di autori». Da bravo imprenditore Mister Locke non si è arreso: e ha comprato centinaia di “reviews” dal furbo Todd. O prendete quel giallista inglese dal nome che sembra già  finto, R. J. Ellory, anagramma del più noto Ellroy (James), costretto a confessare di aver incensato sotto falso nome i suoi stessi libri: e di aver stroncato con la stessa tecnica quelli degli altri.
Il fatto è che le stelle non influiscono soltanto sui nostri gusti letterari. La trasformazione di Amazon da libreria a maxiemporio (sempre virtuale) ha esportato il metodo delle stellette su prodotti di ogni tipo. C’è una stelletta per tutto. E proprio Amazon ha svelato l’arcano buttando fuori dal negozio VIP Deals. Il marchio vendeva custodie per il Kindle Fire: cioè il nuovo lettore di ebook del superstore. Restituendo però il costo di ogni rivestimento a chi in cambio faceva la cortesia di decantarne le lodi sul web.
Chiaro che qui siamo ai limiti della legalità . La Federal Trade Commision vieta che ci sia “qualunque connessione tra un venditore e chi promuova i suoi prodotti” perché questo ne condizionerebbe la credibilità . Ma il problema non è solo legale: ce n’è un altro molto più profondo. Per quale motivo se dobbiamo scegliere un ristorante cerchiamo quello con le recensioni migliori? Perché, appunto, ci crediamo. Una ricerca dell’università  dell’Illinois spiega che il 60 per cento delle recensioni sui prodotti Amazon ha 5 stelle. E un altro 20 per cento di stelle ne ha 4. Le stelle attraggono: perché tra noi e Internet c’è un tipo di attrazione che non c’è nei confronti di nessun altro media.
La tv? La radio? Ma via. È dai tempi della burla sull’arrivo dei marziani che Orson Welles ci regalò proprio via radio, 1937, che abbiamo cominciato a dubitare del Grande Fratello: formato audio o video. E invece ancora tre anni fa uno studio del grande sondaggista John Zogby rivelava che Internet è il mezzo più creduto: vince col 37 per cento. Seguono la tv (17), i giornali (16) e ultima appunto la radio – forse proprio perché è quella che ci ha traditi – benedetto Orson! – per prima. Il paradosso è che fino a tre anni fa le informazioni di Internet altro non erano che un rilancio di quelle ottenute dalla triade dei vecchi mezzi: giornali, radio & tv. Ma questa fiducia nel New Media è aumentata ancora di più con la diffusione dei siti USG. Quelli cioè a User Generated Content: dai contenuti creati dagli utenti. Siamo tutti recensori. Siamo tutti giornalisti. La rete siamo noi.
Sì, la rete siamo noi. Ma la rete è così grande che cascarci dentro è uno scherzo. E come su Forbes spiega Suw Charman-Anderson, l’attivista, scrittrice ed esperta del web, «non c’è motivo per cui i megastore virtuali cambino politica. Vivono per vendere. E potrebbero cominciare a preoccuparsi del fenomeno solo quando cominciasse a urtare le vendite». Insomma siamo tutti Tony Blair: ci siamo fidati di Internet per poi scoprire che era meglio quando si stava peggio. Oddio: magari l’abbiamo scoperto proprio grazie a un po’ di ricerche su Internet – mica grazie a una buona stella.


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