Afghanistan. Droga e sharia, torna la legge dei Taliban

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KABUL. Il futuro è nelle mani degli afgani. Sono mani coperte di calli e vesciche, quelle di Bismillah, di Miralam, di Dawd, fuggiti dai combattimenti al sud e sfollati nel villaggio spontaneo di Charai Kahn Bar, nella periferia della capitale, tra bancarelle di angurie coperte di polvere. Le mostrano aggressivi, alzando la voce, per una volta che trovano attenzione. Il loro futuro non riserva sorprese. Quando gli occidentali se ne saranno andati, a fine 2014, i profughi vivranno ancora in baracche di fango, sotto teloni di plastica.
L’Afghanistan sarà  proclamato autonomo, i bambini del campo continueranno a giocare fra pozzanghere fetide e a riempire gialli pesantissimi bidoni alle pompe dei pochi pozzi, per trascinarli fino alle tende con il logo delle Nazioni Unite. Chissà , magari i negoziati di pace porteranno ad un accordo, ma gli sfollati andranno come ogni mattina nella piazza di Kote Sangi, ad aspettare un lavoro a giornata, nella fabbrica di blocchetti, per sei dollari al giorno. E anche se ci saranno i Taliban, per le madri il futuro sarà  uguale al presente, una lotta per trovare qualcosa da mettere sui fornellini a kerosene.
Non c’è un solo destino per l’Afghanistan: ce ne sono tanti, in sfumature che vanno dalla paura alla speranza. Il conto alla rovescia per la partenza dei contingenti Isaf è cominciato. Kabul è immersa in un’atmosfera di attesa e tensione, ma il traffico di furgoncini e Toyota scalcagnate è sempre fittissimo. La novità , nella nuvola di aria inquinata che soffoca le strade, sono i Land Cruiser bianchi con i vetri scuri, le fuoristrada Hummer civili, i convogli di anonimi signorotti con mitragliatrice di scorta. Per qualcuno questi anni non sono passati invano. Lo dicono le colonne con capitelli corinzi, i cancelli a ghirigori davanti a serrande corazzate, le guardie con kalashnikov delle pacchiane ville di Shirpur, avanguardia dello stile “narco-barocco”, in pieno centro. Lo dice l’affollamento dei voli per Dubai, scrigno delle ricchezze sottratte al paese, prodotte dall’oppio o arrivate come aiuto al popolo afgano e «smarrite» fra i mille passaggi dell’apparato governativo. La corruzione costa quasi un quarto del Prodotto lordo nazionale, dice l’Onu, ed è tale che persino la Commissione contro la corruzione prende le mazzette, secondo alcuni parlamentari.
In Afghanistan l’Occidente ha speso vite e risorse, troppe per l’opinione pubblica. Ora dichiara che il paese è pronto a governarsi da solo: arrivederci, e tanti auguri. E poi? L’organizzazione Cooperation for Peace and Unity ha individuato tre possibili scenari. C’è il più ottimista, dove i Taliban moderati trovano un terreno di compromesso con il governo, concludono i negoziati di pace in accordo con gli occidentali, e l’economia riparte. C’è quello catastrofico, con gli studenti coranici che riprendono il potere, le forze armate si dividono in milizie private per spartire il territorio fra signori della guerra, tornano il mullah Omar, i televisori impiccati e la frusta per le donne vestite in modo non abbastanza modesto. C’è infine una via di mezzo, lo stallo, la prospettiva che il paese vada avanti com’è. Senza rivolgimenti totali, perché l’esercito governativo è forte. Ma anche senza sviluppo, perché chi potrebbe avviare un’attività  economica ha paura di perdere tutto. Quest’ultimo scenario è considerato il più probabile da centinaia di osservatori intervistati dai rilevatori del Cpau.
Le notizie dalle province fanno invece propendere per l’ipotesi peggiore, che i giornali chiamano «ri-talibanizzazione». L’ultimo rapporto dell’Afghan Ngo Safety Office,
che controlla la sicurezza per il lavoro umanitario, non lascia illusioni. Dopo anni di aumento continuo, il numero degli attacchi è in lieve flessione rispetto all’anno scorso, ma superiore al 2009. A giugno gli «incidenti» erano più di quelli dell’agosto 2009, quando i Taliban avevano lanciato un’offensiva legata alle elezioni. L’Anso precisa: «Nel paese gli attacchi sono diminuiti, da 40 al giorno agli attuali 24. Ma è solo una reazione tattica al progressivo disimpegno delle forze occidentali ». Insomma, c’è un attacco ogni ora, senza contare sequestri e attività  criminali. E gli attacchi “verde su blu”, cioè attentati ai militari Isaf da parte di infiltrati nell’esercito afgano, hanno scosso il morale delle truppe: secondo Anders Fogh Rasmussen, segretario generale della Nato, potrebbero spingere a un’accelerazione sui tempi del ritiro.
Nelle zone attorno alla capitale, molti villaggisirivolgonoaiTalibanperl’amministrazione della sharia, perché, diceva nei giorni scorsi un contadino della Paktika, «la giustizia di Kabul è lenta e corrotta». Le sentenze sono più feroci, ma garantiscono una “certezza del diritto”, sia pure quello del pashtunwali, il codice arcaico dell’etnia prevalente.
L’idea di un ritorno al regime del mullah Omar terrorizza soprattutto le donne, la società  civile, ma anche i collaboratori delle forze straniere, che chiedono visti per fuggire in Occidente. Nel paese nessuno investe, Kabul è invasa di merci scadenti cinesi e pachistane: «Ci sono villaggi del Badakhshan dove persino il pane è importato dal Tagikistan», racconta la parlamentare Fawzia Koofi.
Ma la paura non aiuta a capire. I diplomatici insistono: nessuno abbandonerà  l’Afghanistan. Che si chiami «afghanizzazione» o «partnership strategica», sarà  un processo lento e graduale. E la collaborazione con l’Occidente andrà  avanti, soprattutto in termini di sicurezza. L’incubo che sotto l’Hindu Kush sia pianificato un altro 11 settembre è inaccettabile per gli Stati Uniti. Basta guardare alla ritrosia con cui hanno riconsegnato al governo afgano la prigione di Bagram. Seicento detenuti «speciali» restano sotto controllo Usa, «illegalmente», secondo Kabul.
La gigantesca base nell’aeroporto costruito dai sovietici rimane sotto la bandiera a stelle e strisce, e così Kandahar e Shindand. Delle basi Isaf (a seconda delle fonti, da 400 a 1500), molte resteranno a disposizione del Pentagono, tanto più che droni e alta tecnologia permettono una presenza meno evidente, almeno fino a quando gli obiettivi dei Predator scambiano le feste di nozze per riunioni di Al Qaeda, dando il via ai missili.
Insomma, niente scenario da ultimi giorni di Saigon, niente fuga degli occidentali con gli elicotteri dal tetto delle ambasciate, niente burqa obbligatorio o esecuzioni pubbliche. Ma perché il paese rinasca davvero, quanto dovranno aspettare gli afgani? Immolato al totem della sicurezza il 70 per cento degli aiuti, solo il 12 per cento è andato all’istruzione, unica garanzia per una classe dirigente che pensi al bene pubblico prima che al clan. Su questo può contare il Paese: non sulle trattative di pace, poco trasparenti e in eterno stallo, su cui nemmeno l’amministrazione Obama spera più, come ha scritto ieri il New York Times.
Né sui «gruppi civici spontanei» finanziati dalla Cia che si ribellano ai Taliban, e neanche sulle decantate ricchezze del sottosuolo. La speranza dell’Afghanistan sono i giovani che pagano 220 dollari a semestre nelle nuove università  private, 15 solo a Kabul. O i cinquemila privilegiati spediti a studiare all’estero. Il futuro, se non si lasceranno tentare da Dubai o da Londra, è nelle loro mani.


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