Bersani e la vittoria a un passo

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STELLA (Savona) â€” Nell’auto che sfreccia in mezzo alla nebbiolina della pianura Padana, Pierluigi Bersani giura di non sentire il pathos della competizione, il timore di non essere primo, di aver corso tanto e non arrivare infine al traguardo massimo. «Non ci penso. Anzi, non ci riesco a sentire il brivido di poter perdere tutto. Ho la ditta e i problemi dell’Italia nel sangue. Non c’è posto per altro», dice. Forse esorcizza i fantasmi mentre guarda fuori dal finestrino le migliaia di capannoni che sono il senso e il paesaggio di questa parte di Paese che è la sua. Stamattina si va a Stella, un comune arrampicato sulle colline dell’entroterra ligure dove nacque Sandro Pertini, il soldato semplice, il prigioniero delle carceri fasciste, il partigiano, il presidente della Repubblica. Una storia avventurosa ed esemplare, un’altra tessera del Pantheon da mettere accanto a Papa Giovanni. E pensare che il leader socialista era un mangiapreti. «E’ vero — sorride Bersani — altro che. Allora facciamo così: mi dissocio da questo pezzo della vicenda politica di Pertini». Ha appena cantato Bella ciao raccolto davanti alla tomba di famiglia, dove la targa più bella accanto a quelle dell’Anpi è una in ottone che ricorda il grande amore di Sandro e Carla. Nella casa museo tenuta benissimo, tra le fotografie del secolo scorso, Bersani si è anche un po’ commosso e ha rivendicato un coraggio minore rispetto a quello dei partigiani: il coraggio di fare le primarie. Già  questo è un successo.
La lunga corsa è finita. Finisce simbolicamente qui, tra le montagne della Resistenza con la tappa finale a Genova. «Perché Genova? Perché per la sinistra è da sempre la città  del lavoro. E ora della crisi». Le primarie sono un vanto. Il secondo turno, a cui è probabile che si andrà  domenica prossima, pure. «Ce ne vorrebbero quattro o cinque di turni. Fanno così bene al partito», scherza allargando le braccia. Non le volevano D’Alema, Bindi, Franco Marini, la pancia del partito in periferia. Ma adesso, chi può dirne male? Qualcuno lo ha anche chiamato, in questi giorni, per confessargli: «Avevi ragione tu, Pierluigi». «E’ vero, in tanti mi dicono che abbiamo fatto bene». Niente nomi, per carità . Bersani sembra non smettere mai di pensare alla tenuta complessiva del partito. «Le preoccupazioni erano quasi tutte oneste», dice. In quel quasi un rivendicazione minima. «Infatti gli scettici al dunque ci hanno messo consapevolezza e disciplina». Chi ci ripensa, chi oggi dà  valore allo strumento che inizialmente rifiutava, riceve da Bersani l’altra guancia. «Sa come gli rispondo? Avevi ragione anche tu a scegliere di venirmi dietro senza essere convinto».
A Stella, un paesino di anziani che nella quiete della provincia vive uno strano momento, con le ronde di cacciatori che girano la notte perché troppo spesso i ladri entrano nelle case, il segretario del Pd si ferma a salutare i giovani democratici, abbraccia la sindaca, si fa accompagnare dal segretario del Psi Nencini. Scendendo dal cimitero, Bersani racconta. «Ho pensato chissà  se a Pertini sarebbe piaciuto il governo Monti, per esempio. Ho pensato che oggi, al massimo tra sette giorni, ci sarà  il primo candidato premier di queste elezioni». Un di più di responsabilità , un catalizzatore diverso dal governo per le proteste, per la rabbia. «E’ una responsabilità  enorme, ma già  mi fermano in tanti per chiedermi un aiuto. Adesso si devono muovere anche gli altri, entro dicembre il quadro dev’essere chiaro. Con un Paese già  sbandato, non si può cincischiare».
Si sfreccia sull’autostrada che va a Genova per il comizio finale nella sala della Chiamata al porto, il quartier generale dei camalli. Tantissime persone, le foto di Togliatti, Lenin e Guido Rossa vegliano sullo stanzone, seminascoste dalle bandiere. La mezza apertura all’Idv è solo un passaggio: «Sì a Di Pietro con molti se». Semmai colpisce che Bersani parli apertamente degli ostacoli interni e internazionali a un governo di centrosinistra. Lo ha fatto il giorno prima persino con gli allevatori del Caseificio Razionale di Novi di Modena. Gli incontri con gli ambasciatori che sta tenendo in queste settimane lo choccano. E’ tutto vero: gli chiedono cosa succederà 
dopo Monti, se il centrosinistra sarà  quello della vicenda Dal Molin, per esempio, quando il raddoppio della base Usa restituì l’immagine di un governo che dice sì e di ministri che scendono in piazza per il no. «Ma anche noi — spiega Bersani — siamo quelli dei tecnici, di Prodi, Padoa Schioppa, Ciampi, Visco. Siamo quelli dell’euro. E vi preoccupate del centrosinistra quando avete dall’altra parte Grillo o Berlusconi, di cui spero il buon Dio abbia smarrito lo stampo?». Se è Vendola il problema, alle cancellerie, attraverso i canali diplomatici, Bersani ricorda che governa la regione più ricca del Sud da 7 anni. «Se non ci siamo noi, l’Italia diventa un problema per l’Europa». Ma evidentemente la questione dell’affidabilità  esiste e per far tornare il sorriso serve don Ivo, anziano parroco della Bassa, che Bersani abbraccia. «Poi mi inviti a pranzo a Palazzo Chigi neh». Senza farlo sapere a Pertini però.


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