Il voto dell’Europa nelle urne d’America

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Lo diceva già  anni fa, tra i tanti, ma con particolare eleganza, Jean Baudrillard, un filosofo europeo che, dopo essersi immerso nella società  americana, la definì la più grande e la più primitiva dei tempi moderni: e anche la versione originale della modernità  di cui noi europei, diceva un quarto di secolo fa, eravamo una versione doppiata, o con i sottotitoli, come capita al cinema. Nel frattempo, in un ordine mondiale sempre più molle, elastico, in movimento, sempre più decentrato, l’impotenza della potenza si è accentuata, è diventata evidente. E con la suddivisione planetaria dei poteri, noi europei abbiamo acquistato o ricevuto, in quanto Unione, una più consistente quota di responsabilità . Non di reali poteri. Non illudiamoci, non siamo saliti in grado. Siamo più esposti. Più vulnerabili. Più autonomi. Quindi, appunto, più responsabili.
In un mondo, dalla fine della guerra fredda non solo più interconnesso ma anche interdipendente, il nostro atteggiamento di fronte alle presidenziali americane è quindi inevitabilmente mutato: la nostra preferenza non va più tanto al candidato liberal tipo Kennedy o Clinton, ma al candidato capace di reinventare la leadership degli Stati Uniti al fine di adeguarla alle nuove realtà  del mondo.
Nonostante i vistosi limiti dimostrati negli ultimi quattro anni, e le conseguenti delusioni, il democratico Barack Obama sembra agli europei assai più adatto a questo compito del repubblicano Mitt Romney. Il quale stando a quel che ha detto (e in parte poi disdetto) per far piacere ai commercianti del Midwest richiamerà  all’ordine la Cina, troppo disinvolta nel manovrare la moneta nazionale; per far piacere a Israele darà  qualche bastonata agli arabi; e per far piacere agli elettori di origine polacca prenderà  per il bavero i russi… Insomma Romney parla (per poi smentirsi spesso) come se, nel caso fosse eletto, avesse a disposizione un impero ancora quasi onnipotente. Mitt Romney ci appare un uomo del passato.
Come ricorda Thomas L. Friedman, in un mondo sempre più interdipendente è con l’esempio, con il prestigio, con la parsuasione, con il softpower, con la politica, e non con il bastone, con le minacce che si esercita un potere, sia pur grande e per ora ineguagliato. Per gli americani quel che conta è soprattutto l’economia. In un candidato apprezzano la capacità  di raddrizzarla, di rilanciarla. Anche noi europei dipendiamo in larga parte dall’economia d’Oltreatlantico, ma siamo sensibili, attenti, alla politica estera, all’atteggiamento degli Stati Uniti verso il del mondo. Il quale è del resto strettamente connesso ai problemi economici.
I nemici puri e duri oggi si contano sulle dita di una mano: l’Iran, la Corea del Nord, Cuba, Al Qaeda, i Taliban. Numerosi sono invece quelli che Friedman chiama mezzi-amici e mezzi-nemici. Gli «a-nemici».
Ad esempio, ci ricorda il columnist del New York Times, il Pentagono si prepara a un’eventuale guerra con la Cina, mentre il Ministero del Commercio cerca di indurre Pechino ad acquistare aerei Boeing, e le università  americane che contano e che possono aprono dei campus nell’antico Impero Celeste. E a loro volta i cinesi investono capitali negli Stati Uniti. Cosa accadrebbe dopo le minacce di Mitt Romney? I cinesi, principali depositari del colossale debito degli Stati Uniti, continuerebbero ad acquistare titoli di credito alle aste indette dal Tesoro americano? Oppure si asterrebbero facendo salire alle stelle i tassi di interesse? Lo stesso vale per il venezuelano Hugo Chavez, al quale Romney rivolge sguardi corrucciati se non minacciosi. Il Venezuela è per gli Stati Uniti un fornitore vitale di petrolio. In fatto di interdipendenza anche la piccola Grecia in crisi ha un grande peso. Una sua uscita dall’euro provocherebbe una tempesta finanziaria con ripercussioni anche negli Stati Uniti. L’eco dei discorsi di Romney arriva così al nostro orecchio di europei: noi americani siamo un impero e dobbiamo creare la nostra regalità , dobbiamo darle consistenza, dobbiamo imporla. Per questo il candidato repubblicano usa immagini forti, che attenua o accentua secondo i casi. Immagini che hanno scarso rapporto con la realtà  ma che finiranno col trasformarsi, lui lo spera, in realtà . Anche nello stile Romney ci appare qualcosa di già  visto, di usato, di un’America che, perlomeno ai nostri occhi, ha fatto il suo tempo. Sorvolando l’Atlantico le idee si semplificano, si riducono all’essenziale: sia pur ritoccato, in meglio, il profilo politico di Romney ci ricorda George W. Bush.
Quando è stato eletto Barack Obama era un uomo politico quasi vergine sul piano nazionale e del tutto vergine su quello internazionale. Come uomo nuovo e con il suo linguaggio insolito (per noi europei) su una bocca americana, ha suscitato speranze, in gran parte deluse. Ha dimostrato coraggio quando ha promosso in Pakistan la spedizione contro Bin Laden, ha accelerato il ritiro dall’Iraq e ha cominciato quello dall’Afghanistan. Ma poi, dal nostro osservatorio europeo, senza tener conto delle riforme compiute, promesse e mancate in patria, non ci è sembrato un uomo con una grande capacità  di decisione. I quattro anni trascorsi alla Casa Bianca gli hanno forse dato l’esperienza del potere che gli mancava. La sua visione del mondo, così come l’ha espressa ai suoi primi passi presidenziali, non sembra sia stata tuttavia intaccata. Non si è frantumata a contatto con la realtà . E questo conta per noi europei.
Non siamo, come si è soliti dire, elettori silenziosi. Non siamo elettori in alcun modo perché neanche la nostra opinione ha il minimo peso Oltreatlantico; e al tempo stesso non restiamo muti, silenziosi, perché non siamo indifferenti a un avvenimento destinato a influenzare in tanti aspetti la nostra realtà . Di conseguenza diamo un voto che non abbiamo. Senza il timore di apparire dei provinciali che discutono al bar di quel che accade nel remoto e indifferente impero. Siamo osservatori interessati un po’ paradossali perché siamo, credo, in maggioranza per Barack Obama, pur non essendo potenziali elettori di un Barack Obama in Europa. L’apprezziamo nell’America che giudichiamo spesso razzista, ma non lo eleggeremmo da noi. Eppure l’Europa sempre più multietnica dovrà  un giorno imitare l’America.


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