La scomparsa di Gae Aulenti, signora dello spazio unico

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È morta nella notte scorsa Gae Aulenti, nata nel 1927 in provincia di Udine ma milanese di studi e di cultura, per lungo tempo tra i pochi architetti italiani riconosciuti nel mondo. Aulenti si era laureata nel 1953 al Politecnico, coetanea di Gregotti, allieva di Samonà  e Rogers, di qualche anno più anziana dei futuri protagonisti – Rossi, Grassi, Canella – del secondo razionalismo milanese. Era insomma pienamente all’interno di quell’ambiente milanese raffinato, inquieto e (politicamente) impegnato che cercava soluzioni sottilmente «locali» alla prima crisi globale del modernismo. 
Inquietudine e sensibilità  che trovano alla fine sbocco nella «Casabella-Continuità » di Rogers, che diventa appunto la palestra intellettuale perfetta per la costruzione di un’egemonia politica e culturale di lungo corso. Aulenti comincia a collaborare alla rivista come grafico e si conquista lentamente il proprio spazio in una redazione popolata da figure terribilmente carismatiche. In quel quadro d’insieme Gae, prima progettista donna ad affermarsi nell’architettura italiana del dopoguerra, comincia anche a definire un profilo professionale e creativo autonomo. La passione architettonica di Gregotti, Rossi e degli altri giovani «continuatori critici» del moderno si accende infatti mano a mano che la scala aumenta, dall’edificio alla città , dalla città  al territorio, dando il senso di una specie di inebriante egemonia politica del progetto architettonico. La Aulenti si posiziona invece all’estremo opposto, verso la scala più piccola, vale a dire dall’edificio agli interni, dall’allestimento all’oggetto, quasi a trarre vantaggio, con ironia, del suo essere «architetta». Mentre gli altri si rivolgono quasi esclusivamente all’interlocutore pubblico lei apre un dialogo discreto e rigoroso con la nuova classe dirigente industriale, vogliosa di innovazione: disegna spettacolari oggetti di design, allestisce mostre importanti in Triennale, progetta alcuni dei più famosi interni milanesi anni Sessanta per la famiglia Agnelli. Con queste premesse la carriera di Aulenti si consolida negli anni Sessanta e Settanta, sviluppandosi nei decenni successivi lungo tre linee principali: il design, gli allestimenti espositivi e teatrali, le grandi architetture museali.
Nel design trova forse la sua produzione di maggior successo: la lampada Pipistrello, il Tavolino Gae, il Tour e numerosissimi altri oggetti di grande diffusione contribuiscono sia ad allargare il pubblico del disegno industriale d’autore che a mantenere salda una tradizione di design milanese solido e moderno, poco sensibile alle mode. Aulenti individua un campo d’azione nel quale lo stile moderno, con le opportune divagazioni verso il pop e il concettuale, può continuare a operare senza quei ripensamenti e quelle crisi d’identità  che nella seconda metà  del secolo incombono sull’architettura. Le sottili lastre di vetro dei tavoli, l’uso insistito di dettagli presi dalla produzione di massa, la presenza/citazione delle ruote di bicicletta di duchampiana memoria, l’insistenza sulla «mobilità  dei mobili» (su ruote) come espressione di una flessibilità  tutta modernista dello spazio residenziale sono l’espressione coerente di un atteggiamento fedele alle avanguardie del Novecento, e un patrimonio industriale destinato a vivere molto più a lungo della sua autrice. 
Sul piano dell’architettura Aulenti è invece molto più sensibile allo «spirito del tempo». Aiutata dalla sensibilità  per la piccola scala, si ritrova molto a suo agio nel clima «neoliberty» (vale a dire poco fedele all’ortodossia modernista e molto incline a ricominciare a imparare dalla storia) dell’architettura milanese anni Cinquanta. Alla fine degli anni Settanta la sua disinvoltura nel trattare i materiali del passato fa sì che venga scelta per uno dei primi grandi interventi museali contemporanei, la Gare D’Orsay di Parigi. Per la complicata collezione di impressionisti e postimpressionisti Aulenti allestisce uno spazio ricco e articolato, che diventa ben presto un’architettura-manifesto di tutti i pregi (la libertà  nel dialogo con la storia) e di tutti i difetti (l’eccesso di citazioni) del postmodernismo. Con la Gare d’Orsay l’architetta milanese consolida la sua particolare inclinazione per l’architettura museale e lavora all’architettura interna del Beaubourg, alla sistemazione iniziale di Palazzo Grassi (1985) ai musei di Arte Catalana (Barcellona 2004) e di Arte Asiatica (San Francisco 2003). Lo «stile aulentiano» nei musei, applicato nella maggior parte dei casi a edifici preesistenti, prevede molto spesso l’identificazione di un’architettura dentro l’architettura, un nuovo edificio dentro l’edificio destinato alla collezione e all’allestimento. 
Le architetture di Gae Aulenti non si limitano però ai progetti museali. Dagli anni Ottanta in poi si susseguono una serie di progetti su alcuni tra gli spazi pubblici più attraversati del Paese: Piazza Cadorna a Milano, l’ala della stazione di Firenze, le stazioni Museo e Dante della metropolitana di Napoli. Anche nello spazio urbano però la chiave concettuale del progetto è nella sua doppia vita di infrastruttura e luogo di contemplazione artistica: le opere degli artisti a Napoli, il famoso «ago e filo» di Cadorna.
Nel campo delle «architetture effimere» vale la pena soprattutto ricordare i suoi importantissimi allestimenti teatrali e lirici, la collaborazione stabile con Ronconi. Era evidente, osservando i suoi allestimenti e le sue scenografie, come la professione fosse in quel caso l’espressione felice di una amore per la cultura e per il teatro tipico della sua generazione e della sua formazione. Premiata solo due settimane fa con una Medaglia d’Oro alla carriera della Triennale di Milano, più che per la scena architettonica internazionale Aulenti aveva manifestato negli ultimi tempi interesse e passione per il destino dei giovani architetti italiani, approfondito in una serie di convegni e ricerche sviluppate insieme alla Fondazione del Corriere della Sera.


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