Non si chiuda con quell’accordo

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L’ACCORDO SULLA PRODUTTIVITà€ SOTTOSCRITTO DALLE ASSOCIAZIONI DATORIALI, DA CISL, UIL, UGL e assunto dal governo è sbagliato non solo nei contenuti ma anche nella filosofia di fondo che lo orienta. Il documento si muove in continuità  con le scelte che ispirarono l’accordo del 2009; con l’idea, cioè, che per essere più competitivi e più produttivi l’unica strada sia quella di comprimere i diritti e di agire sui costi. Oggi come allora l’intesa sottoscritta sottende la convinzione che la produttività  sia determinata pressoché esclusivamente dal lavoro, e non dall’insieme dei fattori che concorrono
alla produzione.
Il risultato è un documento monco che non pone nessun rimedio a quasi due decenni di mancati investimenti da parte delle aziende.
E non pone nessun rimedio neanche allo spostamento dei profitti verso la rendita, alla progressiva diminuzione della dimensione di impresa, alla mancata riforma della Pubblica amministrazione, all’assenza di una programmazione infrastrutturale. Sono in gran parte nodi che non vengono affrontati per esplicita scelta di un governo che ha deciso di agire quasi esclusivamente sul lato dell’offerta e che considera il sostegno della domanda (aggregata e per consumi) contrastante con la sua politica.
È un approccio con non consente di sperimentare un’idea innovativa di contrattazione, non mobilita investimenti, non incentiva alcun tipo di innovazione, sia questa di prodotto o di processo, non favorisce una crescita delle retribuzioni.
Fatta salva una parentesi durante i governi del centrodestra che, mentre la produzione crollava, dirottarono gran parte delle risorse di cui disponevano agli straordinari, gli incentivi alla produttività  sono operanti fin dal 2007. I risultati sia dal punto di vista del numero degli accordi e sottoscritti e dei lavoratori coinvolti, che da quello dell’effettiva crescita della competitività  paiono tuttavia essere stati assai deludenti. C’è dunque da chiedersi per quale motivo si sia scelto di imboccare una strada simile, riducendo la certezza del potere d’acquisto a molti, per trasferire a pochi quelle risorse, nell’idea che un eventuale vantaggio retributivo derivi non da una maggiore erogazione di salario, ma dalla defiscalizzazione.
Qui sta la prima ragione di non condivisione di un’intesa che assume i tratti di un’ulteriore scelta recessiva. L’Italia di tutto ha bisogno tranne che di una ulteriore riduzione del potere d’acquisto delle retribuzioni che si aggiungerebbe al blocco contrattuale nel pubblico impiego che già  oggi contribuisce non poco alla frenata dei consumi e alla stagnazione della produzione.
A chi sostiene che l’effetto non sarà  quello di una riduzione del monte salari, vanno riproposte le domande a cui il governo non ha ancora dato risposta: se si fanno accordi «di produttività » per 16 milioni di lavoratori privati con quali risorse si defiscalizzano? E se le risorse sono quelle definite dalle leggi di stabilità  con quali criteri si definisce chi ne può usufruire e chi ne resta escluso? Ancora, quale contrattazione si immagina possa svilupparsi se questa dipende dalle risorse disponibili e dal loro effettivo stanziamento? Infine, non c’è forse il rischio di incentivare rilevanti forme di elusione spostando fittiziamente parte delle retribuzioni sulla quota defiscalizzata del salario?
Il governo ha rinviato ai decreti attuativi i chiarimenti su questi interrogativi e la definizione delle regole necessarie a rendere i provvedimenti operativi, rifiutandosi al contempo di prendere in esame la detassazione delle tredicesime come misura per incentivare la domanda, misura che consentirebbe di prestare attenzione ai bassi redditi, a quelli tagliati dalle lunghe fermate produttive e dagli ammortizzatori e provando così ad intervenire su una parte del lavoro precario ancora una volta escluso dalle politiche di sostegno al reddito.
Non essendo di una manovra strutturale, la defiscalizzazione potrebbe utilizzare i proventi della lotta all’evasione e all’elusione fiscale, dando così al provvedimento il carattere dell’equità  e della giustizia, dando così coerenza alle tante affermazioni del governo, rimaste sino ad oggi lettera morta, e con i tanti ordini del giorno del Parlamento che si muovevano nella stessa direzione.
Proprio perché in continuità  con accordi separati precedenti e, in prospettiva, schema per la contrattazione, l’intesa ha la caratteristica di stabilire procedure per i contratti o gli accordi aziendali. Tutto andrà  gestito nella futura negoziazione e ovviamente non ci sottrarremo a nessun confronto, ma lavoreremo per ricondurre ad una condizione utile le norme contrattuali che si determineranno, nella logica di trovare forme incentivanti la produttività  ed eliminare le dispersioni e le inefficienze di una distribuzione di risorse a pioggia sottratte ai contratti. In questa prospettiva il tema della rappresentanza, della rappresentatività  e della democrazia diventa fondamentale. Chi rappresenta chi, in nome di chi agisce, come si decide e come ci si assumono le responsabilità  sono le premesse necessarie alla validità  e all’esigibilità  degli accordi.
Viviamo una stagione in cui si critica molto l’autoreferenzialità  e nessuno può sottrarsi al tema. Le ricette in campo sono molte ma tra tutte, l’unica non praticabile è che la rappresentatività  derivi da un muto riconoscimento delle controparti o del governo. Anche per questo non avere affrontato il tema è l’altra grande ragione che ci ha portato a non condividere l’intesa.
Per un sindacato un accordo è la massima espressione della sua funzione, è l’esercizio della sua responsabilità . Per questo, perché per la Cgil gli accordi fatti si onorano, se non condividiamo il merito lo dichiariamo e verifichiamo le nostre scelte con chi rappresentiamo. Il metodo della verifica delle decisioni non è più rinviabile, pena la riduzione della contrattazione e la scelta di inseguire opportunisticamente la fase politica del momento. Ma di questo, credo, nessuno sente il bisogno.
Abbiamo sempre detto che l’accordo del 28 giugno va nella giusta direzione, ma bisogna applicarlo. Bisogna determinare regole e modalità  attuative, estenderlo a tutti i soggetti contrattuali. La sua applicazione è la strada obbligata che dobbiamo percorrere. Lo dobbiamo fare anche per dare concretezza al nostro agire, per evitare che ci sia chi, strumentalmente, possa dire che un’intesa vale un’altra, tanto sarà  sempre possibile farne di nuove perché quelle sottoscritte non hanno valore.
Abbiamo cercato di raggiungere questo risultato per via negoziale, ma tutte le volte ci siamo scontrati con una mancanza di volontà  che è diventata via via sospetta, come le vicende Fiat sono lì a dimostrare. Se avessimo compiuto scelte chiare avremmo non solo dato soluzione a una problema essenziale per le relazioni sindacali, ma salvaguardato anche l’intervento legislativo in materia da possibili distorsioni.
Sono questi i punti che più di altri non abbiamo condiviso nel documento presentato e assunto dal governo. Abbiamo detto e pensiamo che questa discussione sia stata un’occasione persa per dare equità  alle misure economiche, imprimere una forte azione antirecessiva, risolvere le annose ed essenziali questioni che coinvolgono la nostra democrazia, dare coesione e unità  al Paese. È sfumata una chance importante per ridare slancio e senso agli atti negoziali. È indubbio che la contrattazione nazionale e quella di secondo livello hanno assunto sempre di più una caratteristica difensiva: il sindacato nella tutela del ruolo e della funzione del contratto; le imprese, in una logica di salvaguardia degli spazi di deroga, per proseguire la strada della diminuzione dei costi.
Il risultato è una progressiva diminuzione delle capacità  innovative del sistema delle relazioni industriali, con un grave danno alla capacità  di regolare e per questa via di aumentare, rendere efficace ed efficiente, l’utilizzo dei fattori. Allo stesso tempo il ritirarsi nella difesa dei propri interessi immediati ha prodotto un’idea non inclusiva della negoziazione, mentre parte della non crescita di produttività  deriva dalla progressiva frantumazione del mercato del lavoro, in un’idea di forme di assunzioni a breve senza investimento sulla qualità  del lavoro, della formazione, della innovazione e della creatività .
Un accordo sbagliato non è di per sé un dramma. Si può correggere se si ha voglia e coraggio di confrontarsi sul merito e cercare le strade giuste, quelle che non sacrificano le condizioni di lavoro e del salario, ma facciano fare a tutti un salto di qualità  nell’affrontare la crisi anche come occasione per disegnare il futuro. Quelle che non si è voluto affrontare nel corso di questo negoziato.


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