Il Colle intercetta la Corte

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ROMA. «Non spettava» ai pm di Palermo «valutare la rilevanza della documentazione relativa alle intercettazioni delle conversazioni telefoniche del presidente della repubblica», che quindi andranno distrutte. Nello scontro tra Quirinale e magistrati siciliani che indagano sulla trattativa Stato-mafia, alla fine ha vinto Giorgio Napolitano. Ieri la Corte costituzionale ha accolto il ricorso presentato il 16 luglio scorso dal capo dello Stato che, dopo che era stata resa nota la notizia dell’intercettazione casuale di quattro conversazioni avute con l’ex ministro Nicola Mancino, aveva sollevato un conflitto di attribuzione tra poteri. E nel riconoscere le ragioni del capo dello Stato, i giudici della Consulta ricordano come non spettasse ai pm di Palermo «omettere di chiedere al giudice l’immediata distruzione delle intercettazioni. «Non credo si debbano fare commenti allo stato. Aspettiamo di leggere il provvedimento», sono state le uniche parole pronunciate dopo la sentenza dal procuratore capo di Palermo Francesco Messineo, presente in aula.
Dopo quasi cinque mesi ha dunque fine il braccio di ferro avviato dal Colle. Le motivazioni della sentenza, arrivata dopo più di quattro ore di camera di consiglio, si conosceranno a gennaio,prima della scadenza del mandato del presidente della Corte Alfonso Quaranta. Ma intanto i giudici, oltre a sottolineare come la distruzione delle intercettazioni debba avvenire «con modalità  idonee ad assicurare la segretezza del loro contenuto, esclusa comunque la sottoposizione delle stesse al contraddittorio delle parti», dimostrano di aver accolto in pieno le motivazioni presentate da Napolitano nel suo ricorso.
La questione, come si ricorderà , è legata a quattro telefonate intercettate casualmente tra il 7 novembre 2011 e il 9 maggio 2012. Ad essere sotto controllo era il telefono dell’ex ministro degli Interni Mancino, indagato nell’inchiesta che la procura di Palermo stava conducendo sulla trattativa intercorsa negli anni ’90 tra pezzi dello Stato e la mafia. Secondo il Quirinale quelle conversazioni andavano distrutte immediatamente e non averlo fatto rappresentava una violazione delle prerogative costituzionali della presidenza della Repubblica. Tesi contrastata dalla procura di Palermo, per la quale la distruzione delle intercettazioni (per altro senza alcun contenuto rilevante) avrebbe potuto deciderla solo il gip alla presenza della parti. Non è così, hanno invece deciso ieri sera i giudici costituzionali.
Proprio sulla natura riservata delle conversazioni del capo dello Stato aveva del resto insistito l’avvocato dello Stato nell’udienza di ieri mattina. «All’attività  del presidente della Repubblica – aveva spiegato l’avvocato generale Michele Dipace – va riconosciuta immunità  giuridica funzionale all’esercizio dei suoi poteri e le intercettazioni telefoniche sono in contrasto con questa prerogativa giuridica». Il professor Alessandro Pace, in rappresentanza della procura di Palermo, aveva invece suggerito una possibile via d’uscita «lineare» nel ricorso al segreto di Stato, che il Napolitano avrebbe potuto chiedere al presidente del consiglio.
La sentenza della Consulta è stata accolta apparentemente senza particolari emozioni dal pm di Palermo Nino Di Matteo, uno dei magistrati titolari dell’inchiesta. «Vado avanti nel mio lavoro tranquillo, nella coscienza di avere agito correttamente e ritenendo di avere sempre rispettato la legge e la Costituzione», ha detto il pm. A dir poco amare sono invece le parole di un altro magistrato al centro dell’inchiesta come Antonio Ingroia. Dal Guatemala, dove si trova su incarico dell’Onu, l’ex procuratore aggiunto di Palermo non esita a dirsi deluso per la decisione della Consulta. «Mi devo ricredere», spiega. «Pensavo che ci fosse stato un progresso verso l’autonomia della giustizia dagli altri poteri, invece oggi vedo che i progressi fatti vanno in fumo. La sentenza conferma che la ragione politica in Italia prevale ancora sul diritto». Per Ingroia si sentono riecheggiare concetti vecchi. «E’ paradossale – prosegue – che si dica che il presupposto è la tutela massima del capo dello Stato, perché la procedura indicata dalla Corte nel codice non c’è. Se l’avessimo seguita ci saremmo esposti al rischio che gli atti diventassero pubblici. Così ci sentiamo cornuti e mazziati. Noi abbiamo adottato tutte le cautele possibili e infatti le intercettazioni fino a oggi non sono uscite». Ma per Ingroia nella sentenza c’è qualcosa in più: «Fa rabbia – dice infatti – che la Corte costituzionale non si sia accontentata di dare ragione al Quirinale, ma abbia voluto dare una bacchettata alla procura di Palermo».


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