Il superministro «di cielo e di terra» finisce nel fango

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DAKAR. Riflettori puntati da due settimane su Karim Wade, figlio dell’ex Presidente della Repubblica Senegalese, costretto a presentarsi di fronte alla Corte Superiore contro l’Arricchimento Illecito, un tribunale speciale fortemente voluto e reso operativo nei primi mesi del “nuovo corso” presidenziale di Macky Sall. Alioune Ndao, il procuratore speciale, sta cercando di fare luce sui “presunti” ingenti movimenti di capitali riconducibili a Karim Wade, l’ex «super ministro di cielo e di terra», come veniva beffardamente indicato fino all’aprile del 2012 per la concentrazione incredibile di incarichi ministeriali (ministro dei trasporti, ministro delle infrastrutture e ministro delle energie e tecnologie), gentilmente offertagli dal padre Abdoulaye Wade . Le informazioni che trapelano dalla Caserma Semba Diéry Diallo di Colobane, sede della Corte, iniziano a delineare i contorni di un impero economico ramificato in tutti i settori strategici, dalle miniere ai trasporti aerei, dalle comunicazioni ai servizi commerciali, creato anni fa con l’aiuto di diversi prestanomi. Per il momento sono state individuate 15 società  riconducibili direttamente o indirettamente a Karim. Da una prima stima sembra che il rampollo più inviso del Senegal riuscisse a guadagnare illecitamente oltre 7700 euro all’ora nelle attività  di diverse imprese collegate al trasporto merci aeroportuali senegalesi, guineane, sudafricane. Come se non bastasse, il ripetuto fallimento della compagnia di bandiera Air Senegal, imposto e gestito dal super ministro, ha fruttato capitali immensi stornati in conti esteri e in altre imprese sparse in tre continenti (Africa, Europa, Asia). L’uomo chiave dell’inchiesta è il multimiliardario Abbas Jaber, un libanese nato e cresciuto a Thies, la seconda città  più importante del Senegal. Attraverso la sua impresa Advens, installata in Francia, controlla tutto il mercato agroalimentare del paese influenzando praticamente tutti i settori commerciali. Attraverso l’acquisizione della Sonacos (ribattezzata Suneor), una delle più grandi industrie senegalesi specializzata nella lavorazione ed esportazione delle arachidi e degli oli derivati, avvenuta nel dicembre 2005, Abbas ha intessuto una proficua amicizia con Karim Wade, aiutandolo a costruire ed estendere la rete di imprese e il traffico di capitali oggetto dell’inchiesta in corso. In cambio dell’immunità  e la promessa di poter continuare le sue attività  imprenditoriali, sembra che Abbas sia più che disposto a collaborare con la giustizia. La notizia, trapelata negli ultimi giorni, ha gettato nel panico Karim e il suo entourage di avvocati: la parola d’ordine è fare quadrato attorno all’inchiesta ma la vecchia classe dirigente del partito di Wade e altri imprenditori coinvolti nel sistema di corruzione e favoritismi sta cercando di smarcarsi il più possibile per evitare coinvolgimenti dalle conseguenze giudiziarie pesanti. In Senegal non si parla d’altro. Lo scandalo sembra crescere di giorno in giorno suscitando grande indignazione. Per sostenere il lavoro di Alioune Ndao, il 4 dicembre si è tenuta una manifestazione in Piazza Obelisco, il luogo simbolo della rivoluzione che ha scosso il paese quasi un anno fa, costruendo le premesse per la bruciante sconfitta di Wade alle elezioni presidenziali. Molti militati del movimento M23 si sono raccolti nella piazza spazzata da un vento quasi freddo proveniente dall’oceano e alcuni di loro in diretta televisiva, infagottati in improbabili e insolite giacche a vento, l’hanno salutato come una ventata di aria pulita dopo tanti anni di marciume. Questa inchiesta sta facendo risalire di qualche punto l’indice di gradimento nei confronti di Macky Sall, impegnato in estenuanti viaggi all’estero a caccia di contratti per riempire le voragini delle casse statali, e sta riaccendendo la fiducia, almeno in parte, della gente comune nei confronti della giustizia senegalese, famosa per essere da sempre debole con i forti e forte con i deboli. Ma la strada da compiere è ancora lunga. In questi stessi giorni si è appresa la vicenda di quattro donne cinquantenni arrestate e condannate per direttissima a 15 giorni di carcere duro per aver fumato uno spinello all’interno di un’abitazione privata, dopo il funerale di una loro amica. Inoltre restano ancora impuniti gli uomini delle forze armate e della polizia, responsabili degli oltre 10 giovani morti nelle manifestazioni dei mesi precedenti le elezioni presidenziali. E restano vergognosamente chiusi in carcere in attesa di giudizio altri tre giovani arrestati lo scorso febbraio durante uno degli scontri più violenti.


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