“La mia lotta per Stefano morto nelle mani dello Stato e ancora in cerca di giustizia”

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ROMA â€” «Cosa mi dà  la forza? Ricordare Stefano con il suo sorriso buono che mi chiedeva: “Ila, sei felice?”. Quando mi sento depredata di tutto, tradita da uno Stato che non vuole giustizia per mio fratello, e lo rivedo nella teca dell’obitorio con il corpo spezzato dalle botte, allora torno a quel sorriso, a noi, a come eravamo». Sono passati tre anni e 54 giorni dalla morte di Stefano Cucchi, una nuova perizia dice oggi che Stefano si spense a 31 anni il 22 ottobre del 2009 per fame, per sete e per inadempienza medica. Ilaria Cucchi, la sorella, i periti della difesa, l’avvocato della famiglia, Fabio Anselmo, affermano invece che quel ragazzo arrestato per spaccio morì sì in ospedale solo e abbandonato, ma in seguito ai calci e alle violenze ricevute in carcere. Ucciso a forza di botte. Ilaria, lo sguardo fermo e azzurro, da tre anni e 54 giorni chiede giustizia per quella morte. Dietro le sue spalle, nel piccolo studio di amministrazione condominiale che gestisce, i sorrisi in foto dei due figli, Valerio e Giulia, di 10 e 4 anni. «Adoravano lo zio, giocava con loro come un bambino. Erano belli insieme ».
Ilaria Cucchi, ora si ricomincia daccapo?
«No, anzi. La Corte d’Assise nella quale ho fiducia ha chiesto la perizia, come era giusto, ma questa è piena di incongruenze. Afferma però che sul corpo di Stefano c’erano delle lesioni compatibili con il periodo in cui è stato tenuto in carcere. Quello che da sempre noi sosteniamo».
La perizia sottolinea la responsabilità  dei medici, ma non degli agenti penitenziari…
«Ecco l’incongruenza. Stefano è finito nel reparto penitenziario dell’ospedale Pertini dopo il pestaggio barbaro ricevuto in carcere da chi lo aveva in custodia. Per questo era lì. Dove l’hanno lasciato morire. Come un cane. Per loro era un tossico, e a chi importa la vita di un drogato? ».
La cocaina, lo spaccio, la comunità . Quanto era fragile la vita di Stefano?
«Lottava da anni, si disintossicava e ci ricadeva. Sì, spacciava, non l’ho mai negato, ma non era più tossicodipendente, quando l’hanno fermato nelle sue urine non c’era traccia di cocaina. Non è morto perché era debilitato, prima dell’arresto era un ragazzo in perfetta salute, da poco uscito dalla palestra. Quello che non sopporto è che si descriva Stefano come un tossico all’ultimo stadio. Se non l’avessero massacrato sarebbe ancora vivo… ».
Però Stefano rifiutava acqua e cibo.
«Non è vero, è una bugia, nelle cartelle cliniche c’è scritto che in quei giorni aveva mangiato una tavoletta di cioccolato e che gli era stato somministrato cibo per celiaci. E poco prima di morire aveva scritto alla comunità  chiedendo aiuto. Voleva farcela, voleva vivere».
Qualcuno copre la morte di Stefano, Ilaria?
«Mi sono imposta di essere cauta. Ma avere giustizia dallo Stato chiamato a giudicare altri pezzi dello Stato è davvero difficile. Le istituzioni si proteggono. Noi vittime in quelle aule dei processi siamo sole, noi sorelle, madri, mogli, padri, fratelli di gente morta mentre era nelle mani dello Stato. Penso a Federico Aldrovandi, Michele Ferulli, Giuseppe Uva».
La madre di Federico Aldrovandi è riuscita ad avere giustizia.
«Sì, grazie ad un pm coraggioso, al suo avvocato, e al consulente di parte che ha convinto i giudici. Una vittoria parziale però. Gli agenti condannati per la morte di quel ragazzo, non hanno fatto un giorno di carcere e sono di nuovo in servizio difesi dai loro colleghi. Ma è a Federico in una pozza di sangue che ho pensato dopo aver visto Stefano all’obitorio».
Entrambi vittime di giustizia?
«Quel giorno, era ottobre, mia madre, mio padre ed io, vagavamo pazzi dal dolore cercando il corpo di Stefano. Finalmente ci hanno permesso di vederlo all’obitorio del Verano, dietro una teca di vetro. C’era anche il consulente della procura, il professor Tancredi. Ricordo di avergli detto: “Non li protegga”. E invece…».
Invece, Ilaria?
«Lo Stato difende se stesso. Per questo Stefano non ha ancora giustizia, e forse non l’avrà  mai. Per questo quel giorno chiamai l’avvocato che aveva seguito il caso Aldrovandi. Avevo capito in un attimo che la storia era, in fondo, la stessa».
Non è stanca di lottare?
«A volte sì, sono stanchissima. Per pagare la nostra battaglia abbiamo dovuto ipotecare la casa di famiglia, utilizzare ogni nostra risorsa. E tutto questo divora la mia vita privata, il tempo che dovrei dare ai miei figli, tutte le volte che non li posso accompagnare a nuoto, a danza, alle feste. Lo Stato mi restituirà  mai tutto questo?»
E però?
«Però Stefano mi ha dato tanto, era mio fratello, il mio dolore è acuto, torna ogni giorno, ma poi penso a quello ancora più grande di mia madre e mio padre, e allora continuo. Non so se arriveremo alla verità , ma almeno noi ce l’abbiamo fatta ad entrare in un’aula di giustizia ».
Cosa farà  quando sarà  finito il processo?
«Saluterò Stefano. Non ho avuto tempo finora di vivere il mio lutto, di piangere e di congedarmi da lui. Ho bisogno di pace, di ricordarmi di quando mi chiedeva se ero felice».


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