LA PISTOLA DEL CAVALIERE

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La ricandidatura del Cavaliere e la doppia astensione del Pdl al Senato sul decretosviluppo e alla Camera sul decreto- costi della politica, sono due scelte strettamente collegate l’una all’altra. Quella di Berlusconi non è una semplice mossa tattica, o una reazione isterica innescata dalla battuta di un «untorello» (come Cicchitto definisce Corrado Passera). È invece un una vera e propria rottura politica, che imprime una torsione pericolosa a questo già  tribolato finale di legislatura.
Il Cavaliere punta la sua pistola prima di tutto contro il suo partito allo sbando. La decisione di correre per la sesta volta alla premiership, dopo aver giocato infinite volte al ruolo improbabile di un saggio Cincinnato, fa piazza pulita di tutte le velleità  di rinnovamento del Pdl. Altro che «primarie delle idee» e ricambio dei gruppi dirigenti: Berlusconi conosce un’unica dimensione, quella dell’uomo solo al comando, accudito dalle sue amazzoni e acclamato dai suoi fedeli. Altro che «padre nobile» e riposo a Malindi: Berlusconi può esistere solo nel villaggio globale del potere, non nel villaggio vacanze di Briatore. Altro che «nuova Forza Italia», altro che «Cosa azzurra»: il Pdl, oggi e per sempre, è cosa sua.
Lo dimostra la sorprendente solerzia con la quale i luogotenenti (a parte qualche lodevole eccezione alla Frattini o Crosetto) hanno eseguito l’ordine di boicottare i decreti all’esame delle Camere e di sabotare il governo. Lo dimostra la disarmante arrendevolezza con la quale Alfano (la «grande speranza dei modernizzatori» interni) si è piegato ai voleri superiori, confermando di non avere il “quid” e di essere il segretario del Cavaliere, non il Segretario del partito.
Ma il Cavaliere punta la sua pistola soprattutto contro il governo Monti, e la strana maggioranza che lo sostiene. Il movente è la disperazione: il leader del Pdl non può vincere le prossime elezioni, ma vuole almeno tenersi aggrappato a quel 15-20% di italiani ancora disposti a seguirlo in nome dell’ideologismo populista e della pregiudiziale anti-comunista, e a votarlo per arginare la probabile vittoria dei «rossi » guidati da Bersani ed eterodiretti da Vendola e dalla Cgil.
Per recuperare almeno una parte del suo «popolo» (in fuga dopo troppi anni di promesse tradite) la destra punta tutto sulla crisi economica e sul disagio sociale, che lei stessa ha prodotto con una gestione scellerata della finanza pubblica. Investe sul malessere profondo dei ceti medi, vellicando ancora una volta i soliti istinti sfascisti e scommettendo su tutto ciò che è «anti»: anti- tasse, anti-Imu, anti-Europa. Per questo la prima «vittima » della rottura è il governo Monti, che Berlusconi ha già  cominciato a bastonare in Parlamento e che continuerà  a picconare per l’intera campagna elettorale.
In questa svolta «peggiorista », il Cavaliere è agito non solo dall’istinto di sopravvivenza politica, ma anche dal solito istinto di conservazione personale. E dunque non rinuncia a tenere il governo sotto ricatto, su tutti i tavoli ancora aperti per il Pdl. Dall’election day (dove si tratta di evitare una sequenza di sicure disfatte tra voto nazionale e voto ammini-strativo nel Lazio, in Molise e in Lombardia) alla legge elettorale (dove si tratta a questo punto di blindare il «Porcellum », per consentire ancora una volta l’alleanza con la Lega e la «nomina» dei candidati con le liste bloccate). Dal decreto sull’incandidabilità  (dove si tratta di salvare lo stesso Berlusconi condannato in primo grado nel processo Mediaset e poi di garantirsi un manipolo di opliti scelti e pronti a tutti anche nella prossima legislatura) all’asta per le frequenze (dove si tratta di impedire che l’impero televisivo del tycoon subisca altri danni dopo l’annullamento del beauty contest) .
Non è ancora chiaro se il ricatto berlusconiano possa spingersi al punto di innescare una crisi prima della data già  fissata da Napolitano per lo scioglimento delle Camere. Quello che è certo, è che il via libera alla legge di stabilità  è un impegno al quale il Paese non può venir meno. E quello che è altrettanto certo, è che di fronte alle fibrillazioni politiche di queste ore i mercati hanno già  risuonato il campanello d’allarme dello spread, tornato oltre quota 330, a conferma di quanto sia ancora fragile il marchio tricolore nelle cancellerie e sulle piazze finanziarie internazionali.
Tutto questo, al leader di una destra italiana incapace di diventare «normale», non interessa. Oggi come ieri, il Cavaliere o è dirompente e tecnicamente eversivo, o non è. Ancora una volta, è disposto a sacrificare il bene comune sull’altare dei suoi interessi privati, e a giocare alla roulette russa con l’Italia. Speriamo solo che gli elettori lo abbiano capito. Forse la sua pistola, stavolta, spara solo a salve.


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