«Noi cornuti e mazziati Una sentenza già  scritta per ragioni politiche»

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ROMA — La voce dell’ex procuratore aggiunto Di Palermo Antonio Ingroia arriva dal Guatemala, ferma e decisa: «La lettura del comunicato della Corte mi fa pensare che devo ricredermi».
Sta dicendo che avete sbagliato nel trattamento di quelle quattro telefonate, dottor Ingroia?
«Niente affatto. Devo ricredermi su quanto pensai quest’estate leggendo le considerazioni di Gustavo Zagrebelsky, il quale riteneva che la sentenza dei suoi ex colleghi della Consulta fosse già  scritta. Credevo che esagerasse, invece aveva ragione: per ragioni politiche prima ancora giuridiche, non c’era altra via d’uscita che dare ragione al presidente della Repubblica».
Quindi lei pensa che i giudici costituzionali abbiano scritto una sentenza politica?
«Penso che avessero l’esigenza di dare ragione al capo dello Stato. Aspetterò di leggere le motivazioni della sentenza per capire se volevano anche dare torto alla Procura di Palermo ad ogni costo, ma dalle righe diffuse fin qui si capisce che dovevano sostenere in tutto la posizione del Quirinale. Poi magari le motivazioni mi convinceranno del contrario, ma ora non posso che esprimere queste valutazioni».
Ma scusi, non possono esserci motivazioni semplicemente giuridiche, alla base della decisione? Non potete aver sbagliato voi, anziché loro?
«Certo che possono esserci, ma allora avrebbero dovuto esprimersi in maniera diversa. Dal tenore del comunicato si capisce che secondo loro noi avremmo dovuto dar vita a una giurisprudenza creativa, con un’interpretazione della legge che si sarebbe risolta in una sua violazione. È assurdo, una posizione davvero bizzarra».
Veramente la Corte sostiene che la legge l’avete violata voi, non applicando un articolo del codice che avreste dovuto rispettare e invocando quello sbagliato.
«Ma non è così. Sa di che cosa sono convinto? Che se noi avessimo fatto quello che oggi sostiene la Corte, e cioè trasmettere le telefonate al giudice chiedendo la distruzione delle conversazioni senza contraddittorio con le parti, il giudice avrebbe ordinato il deposito e il contraddittorio con tutte le parti del procedimento, facendole inevitabilmente diventare pubbliche. Anche per questo noi non abbiamo preso quella strada, preoccupandoci di preservare al massimo la riservatezza delle conversazioni del presidente. E questa è la ricompensa».
Quindi oggi sareste vittime di irriconoscenza?
«Siamo cornuti e mazziati, per usare termini meno giuridici e più popolari. Noi abbiamo fatto di tutto perché di quelle conversazioni non uscisse nemmeno una riga, e infatti non è uscita nemmeno una riga. Proprio perché avevamo a cuore la riservatezza delle conversazioni del presidente. A fronte di ciò, non solo non abbiamo avuto alcuna riconoscenza, ma ci siamo visti prima sbattere contro un conflitto davanti alla Corte costituzionale, e adesso una sentenza punitiva. Sinceramente mi pare assurdo».
Crede che le polemiche anche politiche suscitate da questa vicenda abbiano pesato sul giudizio della Consulta?
«Credo proprio di sì. Nonostante la dichiarata irrilevanza delle conversazioni intercettate casualmente sul merito dell’inchiesta, ci sono stati mesi di can-can politico e mediatico che hanno catturato l’attenzione, perfino a livello internazionale. Temo sia inevitabile che abbiano pesato sulla decisione».
Quindi i giudici costituzionali sono stati condizionati?
«Il comunicato emesso dà  la sensazione di una sentenza che risente anche del condizionamento del clima politico. Del resto non penso che esistano sentenze che non risentono del clima generale che si respira in un Paese. Anche quelle in materia di mafia, sia ai tempi delle assoluzioni di massa per insufficienza di prove sia quando si è arrivati alle condanne».
Ma non c’è nemmeno una cosa su cui ritiene di dover fare autocritica?
«Forse abbiamo sbagliato a sottovalutare l’impatto mediatico delle strumentalizzazioni, ci siamo preoccupati più di mantenere la segretezza che degli attacchi che sarebbero arrivati al nostro ufficio».
Ma era lei che andava in giro per appuntamenti politici…
«Oggi che non sono più procuratore aggiunto è la prima volta che parlo del merito della questione. Quanto alla partecipazione ai dibattiti pubblici, ho già  spiegato più volte quelli che ritengo siano miei diritti».
La sentenza della Corte la conferma nella decisione di allontanarsi dalla Procura di Palermo e dall’Italia?
«Mi conferma che il nostro Paese deve ancora crescere in termini di diritto, eguaglianza e rispetto della Costituzione. Bisogna fare molti passi avanti, mentre temo che la Corte abbia fatto un grosso passo indietro».
Giovanni Bianconi


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