La guerriglia del cinema

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Uno stile sperimentale sin dall’esordio, in cui la sfera politica spazzava ogni residuo melodrammatico del passato. Erotismo e morte sono al centro di molte sue opere. Autore di titoli amati da ogni generazione come «L’impero dei sensi», «Furyo» e «Notti e nebbia del Giappone» Due mesi dopo la scomparsa dell’amico di battaglie e di cinema Koji Wakamatsu, si è spento ieri Nagisa Oshima, regista simbolo della svolta degli anni sessanta nella cinematografia giapponese, autore di titoli amati da ogni generazione: L’impero dei sensi, Furyo, Racconto crudele della giovinezza tra i tanti. L’ultima pellicola Tabù, presentata a Cannes nel 2000, era diventata il simbolo della sua lotta contro il grave ictus che l’aveva costretto a una lenta riabilitazione, un film per lui possibile perché girato «dopo aver spiato la dimensione della morte». Poi, nel 2001, il secondo e più grave crollo che lo costringe al ritiro definitivo dalle scene.
Il suo esordio alla macchina da presa nel ’59 con La città  dell’amore e della speranza aveva inaugurato la stagione della «Nouvelle Vague alla Shochiku», un termine abusato dalla major per cavalcare lo sperimentalismo francese e proporre a un target giovane il binomio sesso-violenza. Ma già  da questo primo titolo e dalle tre pellicole girate da lì a un anno, tra cui il noto Notte e nebbia del Giappone, Oshima aveva imposto uno stile marcatamente sperimentale, in cui la sfera politica spazzava via ogni residuo melodrammatico della cinematografia precedente, proponendo una valenza incredibilmente esplosiva nell’ambito di quel delicato momento politico. Da lì in poi, l’indipendenza produttiva, quindi una lunga rassegna di potenzialità  criminali dell’essere umano: dal pluriomicida protagonista di Demone in pieno giorno al disadattamento sociale dei giovani falliti di Sulle canzoni sconce giapponesi, al giovane accusato di stupro in L’impiccagione fino all’estorsione con simulazioni di incidenti nello spiazzante Il bambino, il suo cinema impietoso esplora le relazioni tra società  – quella dei movimenti studenteschi, delle contaminazioni culturali con l’occidente, dei compromessi politici – e gli individui disancorati da quelle logiche. Una sinfonia di laceranti dissacrazioni che trova il suo punto più alto in questa prima stagione dell’affresco di La cerimonia, film simbolo della trappola dell’individuo da cui, nei film realizzati fino a questo momento, adolescenti, coreani, assassini, hanno tentato di evadere.
Dopo l’insuccesso di Sorellina d’estate nel ’72, Oshima è costretto per un breve periodo a ritirarsi in produzioni televisive. Il suo ritorno al cinema avviene con il suo film più famoso, Ecco l’impero dei sensi, opera in cui apparentemente sembra aver rinunciato al tono apertamente denunciatorio a favore del ritratto di un amour fou, ma che di fatto diventa nella sua apoliticità  il più estremo degli impegni del cineasta. Nonostante l’escamotage di ricorrere alla coproduzione nippo-francese gli abbia permesso di eludere le strettoie censorie del suo paese, è con la pubblicazione della sceneggiatura del film, corredata da immagini, che si apre un lungo processo per oscenità  a suo carico, durato ben quattro anni, occasione per lui di definire quale sia la valenza politica dell’erotismo, e per decine di intellettuali (tra cui lo stesso Wakamatsu) di perorarne e farne propria la causa.
La tempesta legale non si era ancora conclusa quando Oshima realizza L’impero della passione, ancora un rapporto sentimentale «al limite», ritratto tuttavia con minore dirompente dissacrazione e accolto con ampi consensi al festival di Cannes. Purtroppo, ci vogliono altri cinque anni prima che riesca a realizzare il suo nuovo film, un’ennesima coproduzione internazionale, distribuita in Italia con il titolo Furyo: l’amore e la morte uniscono/dividono due uomini (David Bowie e Sakamoto Ryuichi, la vittima e il carnefice, alternativamente) in un campo di prigionia giapponese a Giava nel 1942. Il tema dell’incontro tra le due culture non è predominante, mentre prevalgono i momenti in cui si radiografano le sfumature del potere.
Nel 1986 è il turno di Max mon amour, il film in assoluto meno giapponese per tema, ambiente, interpreti tra quelli realizzati dal regista. Anche in questo caso il cardine del racconto consiste in una follia erotica, nella relazione sessuale e sentimentale che una donna (Charlotte Rampling) instaura con uno scimpanzé, relazione descritta senza derive psicoanalitiche e con una sconcertante naturalezza antivoyeristica.
Erotismo e morte hanno quindi rappresentato la forza motrice per la messa in scena di situazioni al limite della criminalità . Ma a Oshima interessa recuperare attraverso la sessualità  parte del senso impercettibilmente epicureo del passato, di quando in Giappone non esistevano, a suo dire, tabù sessuali, subentrati solo in seguito attraverso l’influenza esercitata dalle ideologie e dalle religioni giunte dall’estero: il Confucianesimo dalla Cina prima, quindi il Buddhismo dall’India e dal sud della Cina, fino all’apertura all’occidente, quando il governo avvia un controllo deciso sui costumi e sull’idea di sesso. Tra i tanti scritti che ci lascia, per esempio, nota: «Per il Cristianesimo va bene il sesso quando si sta in coppia e ci sta un dio. In Giappone va bene se si è in coppia e c’è un imperatore».
Sosteneva la legittimità  della sessualità  e del crimine in quella che aveva definito come un’umanità  debole. Voleva sottolineare quali fossero i meccanismi che portano a un cambiamento nei costumi morali di un popolo, e sostanzialmente individuava la formula nella parola «guerriglia». Scriveva che solo gli impotenti, gli esseri socialmente inadatti, commettono dei crimini. Il suo intero cinema ha sostenuto quest’umanità , imponendosi con una forza dirompente, in grado di far mutare la cinematografia del suo paese, a partire dagli anni sessanta, in modo irreversibile.


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