Dal carcere duro alla presidenza l’intellettuale prestato al potere che restituì Praga all’Occidente

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DIFFICILE dire quanti sono, se pochi o molti, gli europei che sentiranno il vuoto lasciato dalla morte di Vaclav Havel. Di certo, l’Europa laica e liberale ha perduto un personaggio che negli ultimi vent’anni aveva rappresentato un costante punto di riferimento. Non era restato che lui, infatti, a incarnare un modello nuovo di statista. Lo statista che va al potere portandosi dietro non soltanto gli interessi di parte, l’ambizione personale, la capacità  di galleggiare tra le miserie della politica, ma anche una visione dell’uomo e del mondo più ampia, più alta, di quelle che cogliamo nei governanti europei. Era rimasto solo lui a ribadire nei suoi discorsi e scritti che la congiunzione tra morale e politica, tra politica e verità , non è la pia illusione di qualche intellettuale con fiato e tempo da sprecare, o addirittura un controsenso. Bensì un legame che dovrebbe e potrebbe realizzarsi in ogni paese civile.

Erano queste le idee con cui s’era presentata sulla scena all’inizio degli Ottanta, nella fase pre-agonica del comunismo, la pattuglia dei “filosofi” che dall’89 in poi guidò il ritorno dell’Europa Centrale in seno all’Occidente. Gli intellettuali di Varsavia, Budapest e Praga – Mazowiecki, Geremek, Kis, Konrà d, Havel – cui toccò di dare l’ultima spinta al fatiscente edificio del potere comunista. Riuscendo a rianimare l’appartenenza delle loro nazioni, dopo i quarant’anni della dominazione sovietica, alla civiltà  occidentale, così da riportarle – come scrisse poi Havel – «a casa, in Europa».
Di tutto quel gruppo, Havel sarebbe divenuto, una volta insediatosi al Castello di Praga come presidente della Cecoslovacchia, la figura più emblematica. Intanto perché restò al vertice dello Stato (della Federazione cecoslovacca sino al ‘93,e poi – dopo la scissione – della Repubblica Ceca) per ben tredici anni. E poi perché non smise mai di riaffermare i principi, i valori, le speranze con cui gli intellettuali centro-europei dell”89 s’erano levati contro la putrefazione della politica avvenuta nel quarantennio comunista. Senza mutare d’una virgola, da capo dello Stato, i discorsi che aveva fatto da intellettuale dissidente nei periodi bui della repressione e del carcere.
Né avrebbe mai potuto mutare linguaggio, perché Havel era un moralista. Un intellettuale che s’era levato contro il comunismo non con un progetto politico alternativo, non con una critica radicale del sistema leninista, ma col rifiuto morale di quel sistema. Il rigetto della menzogna, della violenza, della stupidità  di cui era fatto in parti uguali il comunismo. Il rifiuto che Havel aveva formulato (con una forza e uno spessore di pensiero paragonabili all’opera di Solgenytsin) nei suoi testi più importanti: “Il potere dei senza potere”, l'”Anatomia della reticenza”, e le stupende “Lettere a Olga” scritte dal carcere alla prima moglie. Pagine di cui si può prevedere una vita ben più lunga di quella che avranno invece i suoi testi teatrali. 
Dei giorni dell’autunno 1989 in cui Havel prese la testa del movimento popolare che fece cadere a Praga il regime comunista, ho nella memoria molte e straordinarie immagini. A cominciare da quelle della sua prima conferenza stampa, nella sua bella casa sul lungofiume (l’unico bene del cospicuo patrimonio familiare che il regime non gli avesse espropriato),la mattina del 18 novembre. L’aspetto timido, una leggera balbuzie, la nuvola di fumo che si sprigionava dalle sue innumerevoli sigarette, e la vaghezza delle sue dichiarazioni politiche. Per me che in quella stessa casa l’avevo incontrato due anni prima, in uno dei suoi molti va e vieni dal carcere, non fu una sorpresa. Ma lo fu per la trentina d’altri giornalisti stranieri che erano accorsi per ascoltare uno dei principali esponenti dell’opposizione anticomunista, e uscirono dall’incontro delusi dalla sua mancanza di chiarezza, di mordente.
D’altronde erano i suoi stessi amici ad escludere che Havel fosse adatto a capeggiare quella che più tardi venne chiamata la “rivoluzione di velluto”. Il giudizio era tanto affettuoso quanto negativo. No: Havel era un intellettuale che poteva scrivere appelli e manifesti, ma in quei giorni di scontri con un regime che tentava disperatamente di mantenersi in piedi, un uomo come lui, così inadatto, con le sue esitazioni, sottigliezze e sfumature al dialogo con la folla, serviva a poco. 
Non era vero, e lo si vide nei giorni successivi quando Havel cominciò a tenere i suoi comizi da un balcone della piazza San Venceslao. La balbuzie svanita, il gesto fattosi sicuro, la folla che sotto il nevischio impazziva quando lui lanciava l’antico grido hussita: Prava vitezi, la verità  vince. Era la stessa frase pronunciata da Tomà s Masaryk il giorno della proclamazione della Prima Repubblica, nel 1918. Ed era anche per questo che nel gelo di quei pomeriggi, i praghesi esultanti, le speranze che prorompevano, tutto sembrava evocare la Cecoslovacchia emersa dai Trattati del Trianon. La “piccola nazione” che sarebbe stata per vent’anni, sino al suo strangolamento per mano di Adolf Hitler, uno dei lembi d’Europa più prosperi, colti e civili. Grazie alla democrazia, al ruolo insostituibile della cultura nella società , alle virtù borghesi: la tolleranza, l’individualismo, la dignità , l’humour.
Salito poi al Castello come presidente della Federazione, la impoliticità  di Havel riaffiorò. Il modo in cui gestì la spaccatura della Cecoslovacchia, che nelle sue memorie avrebbe descritto come la prova più tormentosa della sua vita, gli venne rimproverato dalla classe politica praghese in quanto troppo arrendevole, remissivo. E poi cominciarono i malintesi, le incomprensioni con i partiti politici e i loro leader, la fatica di districarsi nei gineprai dell’attività  parlamentare. Le stesse difficoltà  di rapporti che aveva avuto, ai suoi tempi, Masaryk.
Continuava a stare molto bene sulla scena, su quella internazionale soprattutto, quasi – dicevano gli amici – come il protagonista d’una delle sue piéce teatrali. Ma la sua popolarità  in patria s’andava man mano erodendo. Cominciò il lungo, logorante scontro col primo ministro Vaclav Klaus, che negli anni si sarebbe rivelato come qualcosa di più d’un confronto politico. L’economista Klaus (che lo avrebbe sostituito nel 2003 alla presidenza della Repubblica Cèca) vedeva Havel come un artista, un dilettante della politica, sempre circondato – e consigliato – da gente di teatro invece che da politici, e gli invidiava l’enorme prestigio internazionale. Mentre Havel considerava il primo ministro un parvenu, grossolano nei modi, piuttosto incolto e irrimediabilmente noioso. Un disprezzo reciproco, quindi, una serie infinita di sgarbi e contestazioni (da parte di Klaus innanzitutto),che rese gli ultimi anni della presidenza Havel sempre più amari.
Qui conviene fermarsi, attenersi al titolo delle memorie di Havel: “Per favore, sia breve”. E ricordare soltanto che il sogno di Havel d’una Praga infine restituita all’Occidente, questo riuscì a realizzarlo. Prima l’ingresso nella Nato, poi quello nell’Unione Europea. Perché non c’è dubbio che sia stato lui, l’intellettuale che nei gelidi pomeriggi del novembre ‘89,provvisto della sua sola forza morale, parlava dal balcone della piazza San Venceslao ancora circondata dalla polizia comunista, ad aver traghettato il suo paese dalla notte del totalitarismo sino “a casa, in Europa”.


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