Ponte, un miliardo buttato

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Messina che aspetta chi le paghi la passeggiata a mare nuova di zecca. Il neo governatore siciliano Rosario Crocetta che promette l’alta velocità  ferroviaria fino a Palermo. I NoPonte che si scaldano per una manifestazione a metà  febbraio. Gli ambientalisti in ansia per l’ombra proiettata nello stretto sui delfini e per il transito degli uccelli. Quelli che vedono nell’opera un grande sacco per mafie e cosche. I 50 e più esperti internazionali – ingegneri, architetti, tecnici di gallerie del vento e di fondazioni , di aerodinamica e di geologia – che hanno lavorato dieci anni al progetto della campata unica da record mondiale, più di tre chilometri di lunghezza. Si rendono conto, tutti coloro che a vario titolo hanno prosperato o buttato sangue sul progetto Ponte, che tra un po’ saranno disoccupati, che dovranno cambiare obiettivi e agenda delle priorità ? E gli italiani tutti, mentre inizia una campagna elettorale che vuol essere nuova di zecca ma che tiene la bocca chiusa sulla sorte dell’unica grande opera del Sud, lo sanno che c’è una tassa da un miliardo che il governo che uscirà  dalle urne a fine febbraio finirà  per farci pagare? Non la chiamerà  forse la tassa del Ponte, ma a tanto ammonta il conto finale per fermare una volta per tutte la macchina che ha portato avanti il progetto, e mandarla a rottamare.

Il primo marzo scade l’out out del governo Monti per trovare una nuova intesa tra il general contractor Eurolink e la Stretto di Messina, società  concessionaria dell’opera, alle condizioni imposte dalle legge. Unica via d’uscita che scongiurerebbe la fermata definitiva. Ma l’aria che tira non promette niente di buono: anche perché Eurolink, dove al 42 per cento conta la società  Impregilo da poco conquistata dalla famiglia Salini, interessata dunque a un pronto rientro di capitali, ha già  portato il governo italiano di fronte alla Corte di giustizia europea e di fronte al Tar per violazione dei vigenti impegni contrattuali. E si appresta a batter cassa con una salatissima richiesta di penali per 450 milioni. Che non sono solo una bella cifra, ma soprattutto superano il guadagno che l’impresa avrebbe realizzato facendo il Ponte. A portata di mano senza piantare neanche un chiodo.

L’impresa di costruzioni non è l’unica a sperare nel colpo grosso chiamando la società  Stretto di Messina – e lo Stato di cui è emanazione – di fronte ai tribunali per non avere rispettato i tempi di approvazione del progetto. Perché le pretese che scatterebbero all’indomani del requiem del Ponte sono parecchie. Quando hanno visto i conti, e tirato le somme per chiudere la partita, al ministero dell’Economia hanno capito che si trovavano di fronte a un trappolone. Ci sono da pagare i proprietari dei terreni che sono stati vincolati per dieci anni alla costruzione del Ponte, più o meno mille soggetti che chiederanno i danni per essere stati bloccati inutilmente; ci sono i 300 milioni investiti nel capitale della società  Stretto da Anas, Rfi, Regione Siciliana e Calabria, che di fatto diventano carta straccia, senza contare la trentina di milioni spesi per il monitoraggio ambientale dell’area che non serve più. Insomma, un miliardo o giù di lì a carico della collettività .

Metterci il timbro del governo dei tecnici? Bella medaglia al valore. Usare la spada e prendersi la responsabilità  di recidere una volta per tutte il sogno del Ponte? Sai che gazzarra. Meglio spazzarlo sotto il tappeto, come ha fatto il governo Prodi in passato, tre anni di blocco costati sui 700 milioni quando sono stati riavviati i motori con il successivo governo Berlusconi. Così, tra Salomone e Don Abbondio, Monti ha scelto i panni del secondo: uno il coraggio non se lo può dare. E ha congelato tutta la partita d’imperio, contratti, rivalutazioni e indennizzi compresi – con un decreto che alimenterà  le parcelle di parecchi studi legali ?€“ imponendo un’intesa tra le parti entro il primo marzo.

In caso contrario, riconoscerà  al costruttore solo una mancetta di una decina di milioni (salvo avere accantonato per la bisogna una somma di 300 milioni nella legge di stabilità ). Viceversa, per allettare l’impresa ad accordarsi, le prospetta altri due anni di purgatorio – a prezzi del lavoro invariati – in attesa che qualche privato sia disposto a puntare i suoi soldi sul Ponte. Prospettiva che per un costruttore sano di mente è un bell’azzardo, visto che finora di privati disposti a integrare il 40 per cento messo dal governo non se ne sono visti, e che adesso persino quel 40 si è dissolto, dopo che proprio Monti a inizio 2012 ha definitivamente cancellato i 2,1 miliardi destinati al Ponte e il suo ministro Corrado Passera ha dichiarato all’Europa (disponibile a finanziare opere importanti) che il collegamento stabile tra Calabria e Sicilia non è una priorità .
Pensare che la ultra decennale storia del Ponte sullo Stretto – così piena di false partenze e pavidità  politiche – possa finire con una soluzione win-win, pari e patta, tutti contenti e nessun perdente, è d’altra parte un’illusione. In tutta la faccenda il governo, ciascun governo a suo turno, si è comportato come un socio di controllo inadempiente, emanando leggi che poi non ha rispettato, promettendo risorse e poi togliendole, e facendo salire a mille sia lo spread sulla credibilità  del progetto sia lo spreco di denaro. Che dire, per esempio, della burocrazia del ministero dell’Ambiente, che in 15 mesi non è riuscita a dare un parere che doveva dare in tre (ogni mese di ritardo costa 15 milioni di euro)?

E anche pensare, come ha fatto il governo Monti, che basti decidere per legge di non fare il ponte perché questo si traduca in uno scioglimento dei contratti, è altrettanto irrealistico. Più facile che sia una strada irta di ricorsi nei tribunali, come temono gli uomini dell’Authority di vigilanza sui contratti pubblici, che hanno iniziato un’istruttoria sugli impegni contrattuali presi dalla Stretto di Messina. Contratti che negli anni hanno portato via via l’investimento sull’opera dai 6,3 miliardi del 2003 agli 8,5 di oggi, anche a seguito delle varianti richieste dagli enti locali e approvate dal governo e del tempo trascorso. Un esempio: quando Berlusconi ha riavviato nel 2008 il progetto, la Stretto di Messina, guidata da Pietro Ciucci, ha rinnovato il contratto con Eurolink concedendogli condizioni nettamente più vantaggiose, a partire dal metodo di indicizzazione, non più quello del costo della vita, ma quello più accelerato delle costruzioni.

Oggi c’è solo un uomo che spera ancora, Ciucci appunto. Amministratore delegato della Stretto di Messina e amministratore unico del suo azionista di maggioranza, cioè l’Anas, unisce a questo ruolo di controllore controllato una tenuta da maratoneta nelle articolazioni dello Stato imprenditore, essendo nato e cresciuto nell’Iri.

Si dice sia stato lui a suggerire al governo il dispositivo del decreto (ma lui si schermisce), che ha nell’immediato il pregio di lasciargli il boccino in mano. Per fare cosa? «Il decreto ci dà  ancora il tempo per cercare i finanziamenti», scandisce Ciucci: «Di fronte a una situazione straordinaria, ferma l’orologio del contratto, ma dice che l’opera il governo la vuole fare. E ora possiamo andare a cercare i denari sul mercato».

E delle penali richieste dal costruttore, non è preoccupato? «E’ vero che il contratto prevede una penale massima per il general contractor sui 400-500 milioni», precisa, «solo nel caso in cui la stazione appaltante cancelli il contratto senza motivo. La penale può arrivare a zero se si dimostra invece che non ci sono le condizioni finanziarie per la sua realizzazione».

Strano paradosso: per continuare a vivere, la società  dello Stretto deve cercare un finanziatore privato; per minimizzare i danni legali, deve dimostrare che quel finanziatore non c’è neanche sulla luna. Delle due strade, Ciucci dice di voler imboccare la prima. «Il governo ci dà  un nuovo strumento per cercare i finanziatori: il project bond», afferma: in pratica, la possibilità  per la Stretto di Messina di emettere obbligazioni che sono di fatto parificate ai Bot.

Hanno un prelievo fiscale ridotto, perché su di loro grava l’aliquota leggera del 12,50 per cento, e godono di garanzia pubblica, che potrebbe essere data dalla Cassa Depositi e Prestiti. Questi due requisiti potrebbero rendere i bond appetibili per i grandi fondi infrastrutturali, e quindi ridurrebbero la quota a carico delle casse dello Stato, promette Ciucci. E magari potrebbero rifarsi vivi quei cinesi che già  una volta si sono fatti avanti per il Ponte. Singolare ottimismo. Mentre per tutti si avvicina la tassa miliardaria


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