Dagli operai-schiavi al tesoro di Wen

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NEW YORK — 4,34 del pomeriggio del 25 ottobre scorso a New York. Stessa ora, ma del mattino successivo, a Pechino. Il New York Times mette in rete l’articolo-bomba di David Barboza sull’enorme arricchimento della famiglia di Wen Jiabao, il primo ministro cinese, che ha accumulato un patrimonio di 2,7 miliardi di dollari. Tre ore dopo, completata la traduzione, arriva anche la versione in cinese, ma a quel punto tutti gli accessi al Times dalla Cina, in qualunque lingua, vengono bloccati.
È l’inizio della guerriglia cinese contro la grande testata Usa: quasi quattro mesi dopo il sito è ancora bloccato, un giornalista che non ottiene il rinnovo del visto è stato costretto a lasciare il Paese con la famiglia il 31 dicembre (Pechino parla di un semplice disguido, ma lui, per ora, scrive da Hong Kong), mentre Philip Pan, nominato nuovo capo dell’ufficio di Pechino del New York Times, aspetta da mesi l’accredito delle autorità . Ma, soprattutto, dal momento della pubblicazione di quell’inchiesta esplosiva, il giornale diventa vittima di un attacco hacker massiccio e prolungato che, rivelano ora gli specialisti di sicurezza informatica di Mandiant, parte da una torre di uffici occupata dall’esercito cinese. Uno sviluppo inquietante nella storia piena di contraddizioni della modernizzazione cinese: l’inevitabile apertura al mondo con l’adesione al sistema commerciale di libero scambio, ma anche la predisposizione dell’apparato di censura più imponente mai visto ella storia dell’umanità . Il duello del governo cinese con società  e stampa occidentali culminato nella reazione all’articolo su Wen Jiabao dura da anni. E non riguarda solo il New York Times.
Otto mesi fa toccò all’agenzia Bloomberg News che, dopo la pubblicazione di una dettagliata inchiesta sulle ricchezze familiari del nuovo leader cinese Xi Jinping, si vide oscurare il sito, mentre le istituzioni finanziarie cinesi vennero invitate dalle autorità  a non acquistare più i terminali della rete Bloomberg. Google ha sostenuto un braccio di ferro con le autorità  cinesi durato anni, prima di compiere una parziale marcia indietro. Anche Wall Street Journal, Washington Post e Associated Press hanno avuto i loro problemi a Pechino, ma la storia della disputa col New York Times è sicuramente quella più ricca di episodi e anche la più significativa per gli «stop and go» delle autorità  cinesi che consumano le loro rappresaglie, ma poi negano di avere intenti censori e cercano giustificazioni burocratiche per i loro atti. Che bloccano alcuni visti, ma ne concedono altri, compreso il rinnovo concesso alla «bestia nera» Barboza. E che spiano a tappeto, il sistema informatico dei quotidiano e gli archivi di decine di giornalisti, ma non rubano né danneggiano nulla.
Una partita a scacchi che dura da anni e il cui giocatore più assiduo è proprio David Barboza: un giornalista economico che, dopo essersi fatto le ossa negli Usa seguendo lo scandalo Enron, è arrivato in Cina nel 2004. Prima di indagare sul governo, il capo dell’ufficio di Shanghai del Times aveva pubblicato, anno dopo anno, una raffica di inchieste che hanno portato sotto i riflettori dell’opinione pubblica mondiale gli abusi commessi nei confronti dei lavoratori nelle fabbriche cinesi. Dalle storie sullo sfruttamento del lavoro minorile pubblicate nel 2008 alla vigilia delle Olimpiadi di Pechino, quando la Cina cercava disperatamente di abbellire la sua immagine davanti al mondo, all’inchiesta del 2010 sui suicidi alla Foxconn, l’agglomerato di megafabbriche con 400 mila dipendenti dalle quali escono gli iPhone e iPad della Apple, gli articoli di Barboza e del «Times» sono stati una continua spina nel fianco per le autorità .
Qualcuno in passato ha scritto che sono stati tollerati anche perché utili ad una parte contro l’altra nelle battaglie interne al Politburo. Ma chi si aspettava una maggiore apertura con l’arrivo al potere di Xi Jinping, sembra costretto a ricredersi davanti ai risultati dell’indagine della Mandiant.
Massimo Gaggi


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